Antonio Di Pietro? «E’ un uomo di potere, ma soprattutto è una persona sleale e scorretta, che usa il finanziamento pubblico per assicurarsi il controllo totale del suo partito, e quindi per conservare e incrementare il suo ruolo nella scena politica italiana».
Giulietto Chiesa, 70 anni a settembre, è stato eletto all’Europarlamento nel 2004 proprio nella lista capeggiata da Di Pietro, in un’alleanza di breve durata tra l’ex pm e Achille Occhetto. Chiesa, appunto, era candidato “in quota” a Occhetto e fu eletto a Strasburgo dopo la rinuncia dell’ex segretario del Pds. Il divorzio politico, poi, divenne una sanguinosa questione di soldi e di finanziamento pubblico che Di Pietro «si prese per intero», lasciando a secco l’altra componente, che lo portò in tribunale.
Ora che Di Pietro è indagato proprio per una presunta appropriazione non lecita di rimborsi elettorali, Piovonorane ha chiesto a Chiesa di raccontare la sua versione e i suoi ricordi di quel 2004.
Iniziamo da quando lei divenne europarlamentare con l’Italia dei Valori.
«Per la precisione, era una lista di coalizione tra Antonio Di Pietro e Achille Occhetto. Io fui chiamato appunto da Occhetto, che mi propose di candidarmi. Poi ebbi un colloquio con Di Pietrò e tutto sembrò andare bene».
In che senso?
«Io posi una questione per me dirimente, quella del pacifismo e dell’opposizione alla guerra in Iraq. Spiegai a Di Pietro le mie posizioni in merito, e lui mi rispose che non era ferratissimo sul tema ma si fidava di me, insomma non c’erano problemi. Così accettai la candidatura».
E poi?
«La lista andò male, meno del due per cento. Con due eletti, ovviamente Di Pietro e Occhetto. L’ex segretario del Pds però scelse di restare senatore e si dimise. Quindi gli subentrai io, primo dei non eletti».
E con Di Pietro?
«All’inizio ci fu una separazione consensuale, morbida. Insomma, avevamo capito subito che l’alleanza tra lui e Occhetto non aveva funzionato in termini di voti e quindi conveniva a tutti andare per la propria strada. Da una parte lui, con l’Italia dei Valori, dall’altra parte noi – diciamo – “occhettiani”, che ci chiamavamo Il Cantiere. Ma, ripeto, all’inizio non litigammo. Anzi, Di Pietro mi chiese di iscrivermi al gruppo liberal-democratico, per fargli avere più peso, e io accettai, anche se ero un po’ perplesso».
E poi?
«Poi passò l’estate e in autunno il gruppo del Cantiere – Occhetto, Novelli, Veltri, Falomi e altri – mi chiese di andare da Di Pietro per domandargli una parte del “rimborso elettorale” che lo Stato aveva dato alla nostra lista comune, cioè due milioni e mezzo di euro. Avevamo anche noi l’affitto della sede da pagare, i manifesti da stampare, insomma le solite cose».
Quanto volevate?
«Guardi, eravamo ben consci che Di Pietro era l’asse portante di quella lista, però anche noi avevamo portato i nostri voti ed eletto un eurodeputato. Insomma, non ci sognavamo nemmeno di chiedergli la metà e quindi lasciammo decidere a lui».
In che senso?
«Io andai a trovare Di Pietro nel suo ufficio di Strasburgo e gli chiesi, cortesemente: “Secondo te, quanto ci spetta?”».
E lui?
«Apriti cielo. Perse quasi subito la calma, s’inalberò furibondo e iniziò a urlare che non ci spettava neanche una lira. Gridava: “Io non vi devo niente, sei tu che devi tutto a me, se sei qui è tutto merito mio” e così via. Non l’avevo mai visto alterarsi così e non mi aspettavo che alzasse la voce in quel modo. Fu di una volgarità offensiva».
E lei?
«Io gli feci presente che c’era una questione di lealtà e di correttezza politica, ma anche giuridica, perché non poteva tenersi tutto visto che il gruppo parlamentare eravamo noi due e ci si era appena divisi. Lui si mise a ridere e mi disse: “Sì sì, provateci pure a portarmi in tribunale, tanto avete firmato una delega secondo la quale il finanziamento pubblico spetta tutto a me”».
Che cosa avevate firmato?
«Ecco, io al momento nemmeno capii. E rimasi zitto. Ma tornato a Roma lo chiesi a miei compagni del Cantiere: scusate, che cosa abbiamo firmato?».
E alla fine lo avete capito?
«Sì: con molta amarezza scoprimmo che nel giorno dell’accettazione delle candidature, nell’ufficio del notaio di Di Pietro in piazza del Tritone, quello ci aveva messo in mano un bel po’ di carte da firmare e tra queste c’era anche l’accettazione che i rimborsi elettorali andassero tutti a Di Pietro. Ovviamente nessuno di noi quella carta l’aveva letta, se non altro per educazione: vai dal notaio che ti fa firmare la candidatura e mica pensi che ci sia sotto la fregatura. Invece era proprio così: come le assicurazioni che ti rifilano le clausole vessatorie in fondo al contratto».
Quindi?
«Abbiamo intentato lo stesso la causa civile, ritenendo che il modo in cui ci era stata estorta quella firma la invalidasse. E abbiamo anche cercato di trovare una mediazione con Di Pietro. Ma lui niente, non ha voluto sganciare un euro. Comunque il procedimento giudiziario è ancora in corso».
Allora secondo lei ha ragione Veltri, quando accusa Di Pietro di essersi intascato i rimborsi con false autocertificazioni?
«Guardi, io sull’indagine penale non voglio entrare, anche perché si riferisce a un’altra questione. E non penso che Di Pietro usi il denaro del finanziamento pubblico per arricchimento privato. Ma sicuramente, avendo una gestione molto personalistica del partito, sa che il controllo dei finanziamenti è fondamentale per continuare a garantirsi questo suo ruolo di padrone. E quindi perpetuare e allargare il suo peso nella politica italiana. E lo fa senza badare né alla correttezza, né alla lealtà. Di Pietro è semplicemente un pezzo della Casta».
... in attesa della replica di Di Pietro a Chiesa, eccovi un altro contributi di Gilioli sul tema in questione ...
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