mercoledì 29 settembre 2010

Studiare per lavorare… o far lavorare

Le classi più mature non sono facilmente recuperabili sul piano dell’istruzione. Politicamente è un grosso problema dir loro “arrangiatevi”, e così lo Stato vede di tutelarle, il che si è tradotto in Italia con il permettere loro di continuare a fare lo stesso lavoro proteggendo e salvando i settori interessati. Direi che questa è un’ottima ragione per la “stasi” indotta in Italia da subdole politiche industriali (si parla tanto dell’assenza di una politica industriale ma, come ho sostenuto qui, se ne può rintracciare per fatti concludenti una che da decenni mantiene invariata la struttura industriale). D’altra parte la “stasi” di una struttura economica imperniata su certa manifattura implica la non-necessità di alti livelli di istruzione, e da questo deriva anche il deprezzamento del merito a favore della pratica e della relazione (qui il ragionamento più in esteso). L’istruzione così perde una forza “trainante”, la “domanda di competenze”, e finisce per avvilupparsi su se stessa cedendo alle logiche burocratiche. È per questo che dico che in Italia si studia non per il proprio lavoro futuro ma per far lavorare gli insegnanti (e magari finendo anche per far lavorare i Paesi esteri che sanno accogliere le capacità di ex studenti italiani).
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Per tornare a quanto detto dell’istruzione italiana, se questa è (come non le rimane che essere) subordinata a logiche diverse dall’assecondare l’economia, chi è “forte” di istruzione è il primo a restare disoccupato perché appunto “forte” in qualcosa di “inutile”. Che poi questo si traduca soprattutto in disoccupazione giovanile è logico, perché i più istruiti e con meno esperienza (e l’esperienza è una delle cose più importanti in un contesto “statico”) sono i giovani, che quindi sono quelli che “valgono meno” e i primi a venir scartati.
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Il modo in cui è letta l’Agenda di Lisbona, per lo meno in Italia, è “create gente istruita, ché loro faranno crescere il Paese”. La realtà è che il mondo sta avanzando, prima il solo occidente ora sempre più anche gli emergenti, verso attività a crescente contenuto di informazione e conoscenza su cui l’istruzione ha un ruolo decisivo, un livello industriale da “occupare” perché gli altri, i più “labour-intensive”, vengano naturalmente (per la teoria dei vantaggi comparati) coperti da Paesi meno sviluppati; per questo far crescere l’istruzione è necessario. E questo è vero in un Paese che è disposto a cambiare. Ma l’istruzione è un fondo, a livello di Paese, una necessità che viene espressa con l’avanzare stesso dell’economia (che deve essere economia “aperta” alle innovazioni anche dall’esterno). Mille ingegneri in più non sono mille brevetti, ma 999 persone capaci di gestire un brevetto da cui emergono mille aziende che hanno bisogno di gente capace. L’imprenditore traina, l’istruzione asseconda, e come una corda tira dietro l’economia. Ma in Italia, si è visto, non c’è vero spazio per l’innovazione o per mettere in discussione l’esistente, e quindi per una vera imprenditoria.

E non si può spingere una corda.


http://www.chicago-blog.it/2010/09/29/studiare-per-lavorare-o-far-lavorare/

Aggiunta personale: fosse questa anche una (con)causa di certi atteggiamenti sindacali tesi solo alla difesa dell'"esistente"? Ai lettori l'ardua sentenza (compresi quelli le cui orecchie stanno fischiando... :P )

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