giovedì 27 gennaio 2011

Veltroni parla di lavoro, Marchionne e Sindacati ...

Tratto dal discorso al Lingotto del 22 gennaio. Il testo integrale può essere letto qui


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L’Italia non riprenderà a crescere se non si libererà dalla morsa del debito. Ma anche viceversa: non sarà possibile liberarsi dal debito, se non riprendendo a crescere. Anche su questo versante c’è poco da difendere e molto da cambiare, quando la struttura economica di un Paese è caratterizzata da bassa produttività, bassi salari e bassa occupazione, mentre ad essere alta è solo la precarietà.

La situazione va radicalmente rovesciata, con un nuovo patto tra produttori: per far crescere insieme la produttività, i salari e l’occupazione e per ridurre la precarietà mediante un forte sistema di flexsecurity. Per questo dobbiamo riaffermare la vocazione industriale e manifatturiera del nostro paese, insieme all’apertura del nostro mercato agli investimenti esteri.

Per questo il successo dell’operazione Fiat-Chrysler, con la nascita e il consolidamento sul mercato mondiale di una grande multinazionale dell’auto, fortemente radicata in Italia, è di importanza strategica per il futuro del paese. E per questo abbiamo espresso un convinto consenso ai pur difficili e dolorosi accordi su Pomigliano e su Mirafiori. Sono accordi che chiedono un supplemento di impegno, di fatica, di disciplina, a lavoratori che già vivono condizioni di lavoro pesanti, in cambio di retribuzioni certamente inadeguate. A quei lavoratori, al loro “si” contrastato e sofferto, pensiamo debba andare il rispetto, l’ammirazione, la gratitudine di tutti gli italiani. Così come occorre comprendere le ragioni del “no” e con esse dialogare. Senza gli accordi non ci sarebbe stato l’investimento: Napoli, Torino, l’Italia avrebbero visto ridimensionata una presenza industriale che deve invece essere confermata e rilanciata. Con gli accordi, Fiat ora è chiamata a confermare ed estendere il suo radicamento in Italia. Ed è chiamata a mostrare la sua forza inventando prodotti competitivi sui mercati. Con gli accordi, per i sindacati, la cui unità non dobbiamo mai smettere di cercare e promuovere, per le imprese e per la politica, si è aperta una fase nuova, una stagione paragonabile a quella in cui si affermò una nuova legislazione del lavoro, ormai decine di anni fa.

E’ un tempo per i riformisti, quello che ora si può e si deve aprire. Prima di tutto: nuove relazioni industriali. L’approvazione degli accordi per la nuova Fiat accelererà la tendenza allo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva dalla dimensione nazionale verso i luoghi di lavoro. E’ quindi ancor più necessario e urgente costruire un nuovo modello di relazioni sindacali e ridefinire, in questo contesto, le regole della rappresentanza, per fare non meno, ma più contrattazione collettiva, in un contesto sicuro di diritti e doveri per ciascuna organizzazione. La via maestra è quella di un accordo interconfederale, eventualmente tradotto poi in norma di legge. Ma sono tredici anni che se ne parla. Ha quindi ragione Pietro Ichino, quando propone, in carenza di accordo, di approvare una legge, che attribuisca in modo chiaro alla coalizione sindacale maggioritaria il potere di negoziare con efficacia per tutti e al sindacato minoritario, anche se rifiuta di firmare, non il potere di veto, ma il diritto alla rappresentanza in azienda.

Ma c’è una questione ancora più grande che è tempo di affrontare senza gli schemi ideologici di una storia passata. Cominciammo a farlo nel programma elettorale del 2008. Si chiama partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda. E’ ora e tempo di dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione: un articolo frutto della convergenza riformatrice di due personalità del rilievo e della statura di Giovanni Gronchi, che fu l’estensore del testo dell’articolo, e di Giuseppe Di Vittorio, che lo sostenne e lo difese contro gli opposti conservatorismi ideologici della destra liberale e del radicalismo di sinistra, “attribuendo al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese”. Partecipazione significa diritto di accesso dei lavoratori, rigorosamente basato sul principio contrattualistico, alle informazioni sull’andamento dell’impresa ed eventualmente anche partecipazione agli organi di controllo della gestione, partecipazione al capitale, senza escludere quella agli utili. E’ attraverso la partecipazione nella gestione dell’impresa, che i lavoratori possono condividere con il management la “scommessa” legata a piani di sviluppo innovativi, che chiedono grandi investimenti in capitale e lavoro e pretendono da entrambi forti dosi di condivisione del rischio. Se il piano ha successo e gli obiettivi produttivi vengono conseguiti, deve risultarne direttamente influenzato l’assetto retributivo, sia dei lavoratori, sia del management, a partire dal leader dell’azienda.

Ma voglio, a questo punto, dire con chiarezza: basta con esagerate stock-option e premi milionari per i manager, esercitabili senza vincolo temporale e centrati sui risultati finanziari e speculativi di breve periodo, anziché su quelli industriali, con l’inevitabile, conseguente conflitto d’interessi, fonte di sospetti e di sfiducia. Anche a questo proposito Obama ci fornisce un riferimento prezioso. Negli Usa, il presidente ha potuto e dovuto agire sugli emolumenti scandalosi dei top-manager delle banche salvate coi soldi dei contribuenti. Qui in Italia, possiamo limitarci a chiedere che alla Fiat anche il contratto di Marchionne sia legato, come quello dei lavoratori, al successo di lungo periodo del piano Fabbrica Italia.

5. Contro la precarietà, un diritto unico del lavoro

In quasi tutti i settori produttivi, oggi - nella nostra Repubblica fondata sul lavoro - possono esistere aziende importanti con pochissimi lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato e una enorme massa di lavoratori di serie B, C e D. Un apartheid che per i giovani significa il dramma dell’insicurezza e la paura del futuro. Ai lavoratori precari, in particolare giovani, non basta rivolgersi con proposte di ordinaria manutenzione del nostro diritto del lavoro, magari accompagnate da un immediato, forte aumento dei contributi previdenziali. Bisogna puntare risolutamente al bersaglio grosso, ora, subito. Perché è in gioco il destino di un’intera generazione e perché la Grande recessione ci ha fatto toccare con mano l’intollerabilità etico-politica e l’inefficienza economica di un sistema di diritti e tutele del lavoro così pesantemente discriminatorio verso la sua parte più debole. Questo è il tempo di una battaglia per l’adozione di un “diritto unico del lavoro”, che possa applicarsi a tutti senza compromettere la competitività delle nostre imprese. Non si tratta di intaccare o modificare la posizione di chi ha già un rapporto di lavoro stabile. Si tratta di offrire a tutti quelli che si affacciano oggi al mercato del lavoro qualcosa di molto migliore di ciò che il regime di apartheid attuale offre loro. Si può fare, si deve fare adesso.
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1 commento:

  1. P.S.: Quando Water dice "...La politica e le istituzioni devono essere le prime ad assicurare pulizia e trasparenza al loro interno. Va spezzato ogni legame. Va cancellata ogni minima contiguità. Nella scelta dei gruppi dirigenti, al momento delle candidature, non deve succedere che la mafia possa minimamente influire o condizionare. .." ce l'aveva in anticipo con Cozzolino?

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