Che, in attesa di risposte un po’ più certe (o quantomeno credibili) sulle origini dei cambiamanti climatici, lo sviluppo e il progresso economico siano la più saggia politica climatica e ambientale, come ebbe a dire qualche tempo fa Andrew C. Revkin sul NYT, sembrerebbe cosa più che ragionevole in sé. Oggi uno studio apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences of United States of America offre una visione del tutto nuova e controcorrente sullo sviluppo agricolo come fattore determinante per la riduzione dei gas serra. Il titolo dello studio, segnalato da Marco Cattaneo, è Greenhouse gas mitigation by agricultural intensification, ovvero Mitigazione dei gas serra per effetto dell’intensificazione agricola.
L’agricoltura moderna ha già da tempo risposto alle cornacchie malthusiane: tra il 1961 e il 2005, mentre la popolazione mondiale cresceva del 111%, la produzione agricola è aumentata del 162% (sono i primi due grafici della figura qui sotto), mentre gli altri due grafici mostrano come sia stato lo sviluppo tecnologico e la conseguente impennata della produttività (in basso a destra l’incremento nell’uso di fertilizzanti) a incidere su questo incremento molto più dell’aumento delle terre coltivate (in basso a sinistra). Intensification, prima di tutto, molto più che extensification.
Lo studio però va oltre, immaginando due scenari ipotetici e confrontandoli con la realtà. Il primo scenario ipotizza che la popolazione mondiale e l’economia globale si siano evolute come nel mondo reale, ma che la tecnologia e la pratica agricola siano rimaste ferme al livello del 1961. Uno scenario pazzesco dal punto di vista scientifico, ma che paradossalmente sembra essere il punto di arrivo delle più diffuse e popolari policies agroambientali, quantomeno in Europa. Il secondo scenario, al contrario, immagina che la tecnologia agricola sia sì in evoluzione, ma solo in misura sufficiente a conservare il tenore di vita del 1961.
Utilizzando i principali fattori di emissione di gas serra che derivano dalle attività agricole (emissioni del suolo, uso dei fertilizzanti, coltivazione del riso e conversione dei terreni, risulta che entrambi gli scenari sarebbero stati devastanti, proprio perché in entrambi vi sarebbe stato un aumento dell’extensification rispetto all’intensification (nel primo scenario, per soddisfare le esigenze della popolazione mondiale del 2005, un’agricoltura ferma al 1961 avrebbe dovuto rendere coltivabile, essenzialmente attraverso la deforestazione, una superficie superiore a quella della Russia). Lo si può vedere da questa figura, dove il primo grafico rappresenta l’evoluzione reale delle emissioni derivanti dalle attività agricole, gli altri due rappresentano i due scenari ipotetici appena descritti.
Per concludere, lo studio afferma che, nonostante le emisioni dovute, per fare un esempio, all’uso di fertilizzanti siano aumentate, l’effetto netto di rese agricole più alte è stato un risparmio, nei 45 anni valutati, di 590 miliardi di tonnellate di CO2, e che ogni dollaro investito nell’aumento della produttività agricola renda un risparmio di 249 chilogrammi di CO2.
Nel paese (e nel continente) dei disincentivi alla produzione, del rifiuto delle biotecnologie, del basso impatto, della decrescita più o meno felice, dei chilometri zero e dell’agricoltura paesaggistica, uno studio del genere dovrebbe essere quantomeno preso in considerazione. Dubito fortemente che lo sarà.
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L'Agricoltura intensiva ha bisogno di fertilizzanti ed insetticidi e pesticidi e fungicidi intensivi, come i nitrati ed altre molecole chimiche, della cui presenza ci lamentiamo nelle nostre falde acquifere in primis, per non parlare della rigenerazione del nutrimento del terreno che non sta dietro a quanto si porta via, salvo non inventarci qualche altra cosa che sintetizza l'humus o i microrganismi che si trovano nei primi decametri di superficie del terreno. Poi l'analisi del ciclo di vita non si fà semplicemente così: dei processi produttivi dei prodotti utilizzati non se ne parla proprio.
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