domenica 4 luglio 2010

Modificare l’art. 41 Cost.: An, cur, quid e quomodo

Modificare l’art. 41 Cost.: An, cur, quid e quomodo: "

 È davvero necessario riformare la Costituzione per alleggerire il peso burocratico che soffoca le imprese?


Prima di analizzare l’attuale proposta del governo, è opportuno capire cosa la Costituzione dice ora a proposito della iniziativa economica privata. Va premesso che la Costituzione economica è, tra tutte le parti costituzionali, quella che più ha subito lo Zeitgeist che aleggiava e aleggia ancora in Italia.



Più che essere la Costituzione fonte della cultura economica italiana, è stata quest’ultima che ha forgiato un modello economico costituzionale secondo una teoria fino ad oggi prevalentemente interventista, giocando sulle clausole aperte delle disposizioni costituzionali e sul fatto che i costituenti non avevano in mente un preciso modello. Non può nascondersi una fiducia del costituente per le capacità dello Stato di sanare i cd. fallimenti del mercato tramite i suoi interventi in economia. Resta però il dato che, a ben vedere, tali interventi non erano congegnati come obbligatori, ma ad essi si sarebbe dovuti ricorrere solo in funzione del raggiungimento della piena promozione umana.


D’altra parte, ciò era coerente con il modello di Stato sociale che i costituenti avevano in mente. Neppure i liberali si opposero a questo modello, comprendendo che in quel momento storico non sarebbe stata possibile la realizzazione dei principi di laissez faire, e accontentandosi di aver portato a casa nel 1946 la liberalizzazione del commercio estero e del credito e l’ammissione dell’Italia alle istituzioni di Bretton Woods, come se “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si [fossero volute opporre] ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” (Calamandrei).


E così la possibilità per lo Stato di intervenire si è tradotta in un fortissimo condizionamento del mercato, non solo attraverso gli interventi indiretti, ma soprattutto attraverso la gestione di interi settori economici e dunque la creazione di monopoli legali.


In particolare, il diritto di iniziativa economica, cuore della Costituzione economica insieme al diritto di proprietà, è stato uno di quelli che più hanno ricevuto un’interpretazione in senso favorevole al diretto intervento statale, fino a leggervi la possibilità di un’economia socialista (Lavagna).


Le condizioni politiche del momento non consentivano un’interpretazione dell’art. 41 più liberista.


Ma oggi, una lettura scevra da quei condizionamenti renderebbe chiaro che la preferenza del costituente non è né per l’iniziativa economica pubblica né per quella privata, quanto piuttosto per quell’iniziativa, pubblica o privata che sia, che concorra alla ricchezza materiale e spirituale del Paese, e che dunque non sia esercitata secondo modalità tali da compromettere né l’una né l’altra.


Certo, l’articolo riconosce la libertà di iniziativa economica privata (senza escludere quella pubblica), con ampi e pervasivi limiti (utilità sociale, sicurezza, libertà e dignità umana). È questo uno dei passaggi che più di altri hanno giustificato l’intervento dello Stato in economia, esasperando la presunzione di contraddizione tra la funzione di accumulazione del capitale tipica dell’imprenditore privato e l’utilità sociale, quando invece il parametro per valutare l’utilità sociale del servizio o bene prodotto dovrebbe e potrebbe essere quello della convenienza, ovvero dell’efficacia e dell’efficienza del processo compiuto.


Tuttavia, resta possibile leggere nelle pieghe dell’articolo alcuni dei principi ritenuti fondamentali per un’economia più libera. Il diritto di proprietà e la libertà contrattuale, innanzitutto, senza i quali l’iniziativa economica non potrebbe essere esercitata, e implicitamente anche la libertà di concorrenza, visto che l’articolo presuppone la compresenza di imprenditori che liberamente svolgono la loro attività.


Veniamo ora alla proposta di modifica, che interessa l’art. 41 e l’art. 118 Cost, e poniamo tre domande.


1. Domanda è “esistenziale”: È davvero necessaria una riforma costituzionale? Potrebbe essere sufficiente una diversa interpretazione del testo vigente per raggiungere gli stessi effetti di “liberazione” delle imprese?


Talora l’opzione zero (non intervenire normativamente) è preferibile. Lo ha insegnato Bruno Leoni (Freedom and the Law, trad. it. La libertà e la legge), prima ancora che l’OCSE e le sue raccomandazioni sull’analisi di impatto della regolazione. Prima di decidere come intervenire bisogna decidere quindi se intervenire. Alla domanda “esistenziale”, si potrebbe rispondere che ora non è necessario un intervento di modifica, essendoci tanto ancora da fare a livello legislativo e interpretativo. L’articolo si presta legittimamente a letture, interpretazioni e applicazioni molto più liberiste di quanto fatto finora. Ne discende che lo stesso risultato potrebbe conseguirsi non attraverso la modifica della Legge fondamentale, ma seguendo semplicemente l’alveo della legislazione ordinaria (quando non anche regolamentare), più facile da approvare. Ne è prova che esso abbia già retto all’introduzione dei principi di libero mercato e libera concorrenza imposti dal Trattato istitutivo della Comunità europea.


C’è, in altre parole, un margine di interpretazione costituzionale a favore della libertà di impresa ancora inesplorato, su cui si potrebbe insistere a livello legislativo e interpretativo prima di optare per l’emendamento costituzionale, che è procedura piuttosto complessa e spesso destinata al naufragio.


2. Domanda “metodologica”: ammesso che sia necessario intervenire, come bisogna intervenire?


La relazione di accompagnamento alla proposta di modifica insiste sulla necessità di semplificare, snellire e ridurre (anche in termini di lunghezza) le norme, per ridurre i carichi alle imprese. Eppure, paradossalmente, la novella introduce all’art. 118 tre lunghi commi che, a leggerli, si direbbero di tenore quantomeno legislativo ordinario.


Se le Costituzioni debbono dettare sinteticamente i principi fondamentali che reggono la società, cosa c’entrano le regolette sull’obbligo per regioni, Stato e enti locali di riconoscimento dell’istituto della segnalazione dell’inizio attività e di autocertificazione?


La mostruosa riforma del Titolo V, mostruosa fin dalla sua estensione, avrebbe già dovuto insegnarci la lezione secondo cui in diritto più si dice, più si complica. Se Giustiniano, come ricorda Dante, ebbe il merito di trarre dalle leggi il troppo e il vano, i nostri legislatori sembrano invece aggiungere il troppo e il vano alla Costituzione, immergendo i cittadini nella più totale confusione anche metodologica, per cui la Legge fondamentale dello Stato diventa un rotolo di regole che ne indeboliscono il valore costitutivo, e sembrano fornire ulteriore pasto all’insaziabile bestia dantesca che “dopo ‘l pasto ha più fame che pria”.


3.. Domanda “sostanziale”: pur ammesso l’inserimento di nuove regole che si aggiungono alle  precedenti senza sottrarle, la formula costituzionale che ne risulta è migliore dell’attuale?


È una domanda di merito, in cui si possono esprimere solo opinioni soggettive.


Innanzitutto, non è migliore perché, tornando al metodo, l’intervento aggiunge regole a quelle esistenti, e quindi non fuga i fantasmi dell’interventismo (economico o burocratico) che finora la lettura dell’art. 41 ha consentito. Eventualmente, dunque, sarebbe opportuno novellare non solo per aggiungere, ma anche per togliere (togliere ad esempio la programmazione statale, ridurre i limiti all’iniziativa economica privata, impedire allo Stato la creazione dei monopoli legali tramite le riserve originarie e l’espropriazione).


In secondo luogo, non è migliore perché, se si voleva aggiungere qualcosa, si sarebbe potuto esplicitare il principio della libertà di concorrenza, che è forse la lacuna più sospetta dell’articolo.


Già in Assemblea costituente, il liberale on. Cortese propose un emendamento che avrebbe avvicinato la prospettiva costituzionale ai principi di libero mercato, recitando che “la legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore”. Alla tutela del consumatore è infatti considerata funzionale la libertà di concorrenza. Tuttavia l’emendamento fu ritirato, e all’inizio degli anni Ottanta una più incisiva proposta dell’on. Miglio, che introduceva nell’art. 41 l’autonomia contrattuale e il principio di concorrenza, purtroppo cadde.


Togliere nell’art. 41 l’enfasi sulla presenza dello Stato e aggiungere la libertà di concorrenza (restando sul piano dei principi senza scendere su quello delle regole, poiché solo i primi sono oggetto di una Costituzione) sarebbe stato sufficiente a garantire i due obiettivi della attuale proposta: la responsabilità personale e il controllo ex post dell’amministrazione sulle attività economiche e sociali.


Quanto all’art. 118, si fa davvero fatica a capire cosa c’entrino all’interno di una Costituzione i tre commi recanti regole sull’autocertificazione, sull’inizio di attività, sui limiti urbanistici, sui registri delle eccezioni alla libertà di impresa, etc. Si fa così fatica che un’analisi sul merito resta davvero secondaria.


Sia consentita però un’osservazione finale: nel lodevole intento di sfoltire, snellire, semplificare e ridurre le tortuosità burocratico-amministrative introdotte con leggi e regolamenti, si finisce per appesantire e intricare la massima legge dello Stato, che dovrebbe essere strutturata solo su principi generali. Altro che opera di dimagrimento della burocrazia, questa è un’operazione di ingrassamento della Costituzione!

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