Era l’inizio degli anni Novanta, gli anni dell’epopea della “Generazione X”, della noia come stato d’animo permanente.
Era il periodo in cui, mentre una parte dell’America stava per immergersi negli “happy times” clintoniani contraddistinti da un certo livello di ricchezza, un’altra, quella dei giovani colti da un’improvvisa epidemia di malessere comincia a mostrare i risvolti negativi dell’opulenza di una società che rischia di farli rimanere indietro nella marcia collettiva verso la felicità e il progresso.
Sono in pochi quelli che si accorgono che qualcosa di importante, invece, sta per accadere nel nord-ovest degli Stati Uniti tra i giovani musicisti cosiddetti “grunge” per via dell’aspetto estetico trasandato, e della loro scarsa ricercatezza tecnica interessati come sono all’immediatezza della propria musica e alla forza delle proprie parole.
In un suo articolo Everett True – il primo giornalista ad adoperare il termine “Grunge” che sta per sporco o persona repellente – durante una trasferta a Seattle nel periodo in cui stanno per sbocciare diverse band, così descrive la scena musicale: “La più eccitante prodotta da una singola città come non accadeva da dieci anni”; per trovarne una bisogna risalire alla Londra Punk.
Un libro di Greg Prato (un critico musicale che scrive per il sito Allmusic.com) uscito in America, “Grunge is dead”, una “storia orale” del grunge, o un epitaffio, pesante e solenne “come una pietra tombale” prova a descrivere ciò che realmente il grunge ha rappresentato.
Nelle sue 500 pagine, è composto da brevi passaggi, ordinati per argomenti, di interviste fatte alle persone che “c’erano”.con testimonianze di natura sociologica, che partono da chi era “troppo giovane per essere un hippie ma troppo vecchio per essere punk” e aneddoti più coloriti sui gusti musicali dei frequentatori della scena a inizio anni Ottanta. Descrivendo una “scena” autentica, una comunione sotterranea di musicisti che suonavano (letteralmente) nei garage, tra fumo e sporcizia.
Tra le band che spuntano nella città statunitense vi sono i Pearl Jam, i Nirvana, i Soundgarden, gli Alice in Chains, i Mudhoney e gli Screaming Trees solo per citarne alcune.
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I media e le società di marketing fiutano l’affare: in modo irriguardoso e imprudente cercano di rendere il fenomeno del Grunge “show business”, sfruttando l’epidemia di malessere spacciandola come variazione dell’eroismo giovanile, naturalmente dopo aver sepolto una volta per tutte lo yuppismo degli anni Ottanta.
Segue una pletora di libri e pellicole sulla nuova condizione dei giovani disgraziati che cercano indipendenza e discrezione ma si ritrovano coi riflettori sparati addosso e con il fiato sul collo di manager squali e donne viscide molto easy.
“Grunge è fruscio di denaro fresco, è il suono dell’underground che finalmente fa i soldi”, dichiara Bruce Pavitt fondatore e proprietario della Sub Pop l’etichetta indipendente che tiene sotto contratto le migliori formazioni della città.
E’ grazie alla Sub Pop se si riesce a vendere e a rendere “prodotto” la giovane “spazzatura bianca” che improvvisamente diventa “cool”.
Una volta per tutte quella “X” che è servita da scudo per un’intera generazione viene finalmente spazzata via.
Kurt Cobain, leader dei Nirvana, nel momento in cui imbocca la strada per la gloria grazie all’album “Nevermind”, coacervo del Seattle sound, risolve la questione infilandosi un fucile in bocca come a dire: “Grazie e scusate ma non ce la faccio. Non ci siete riusciti a illudermi”, suscitando enorme dolore in milioni di fan che però riescono quasi subito a farsi una ragione di quella morte prematura: “Il perdente alla fine perde, per sua stessa volontà”, firmato Kurt il puro.
Ragazzotto viziato e accecato dal mito della rockstar debosciata o uomo che sotto la dorata scorza di virile dio del rock presenta una eccessiva sensibilità d’animo?
E’ questo il quesito più ricorrente all’epoca; oggi la risposta appare quanto mai ovvia.
Senza Cobain, probabilmente il Grunge non avrebbe ottenuto l’immensa popolarità conquistata tra gli anni 1992 e il 1995, sicuramente i Soundgarden e gli Alice in Chains sarebbero diventati star ugualmente, ma non esponenti di uno stile assurto a nuova filosofia di vita.
Alla morte di Kurt è Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam, il nuovo portavoce di un’intera generazione di ragazzi che qualche rivista identifica con le camicie di flanella a quadrettoni, quelle indossate dai boscaioli per intenderci.
Coerente e fedele alla linea, Vedder è riuscito a rendere i Pearl Jam una delle più grandi band del rock statunitense, senza mai addentrarsi nei pericolosi meandri dello star system, continuando a suonare spinto dall’amore per la musica.
Coerenza che i Pearl Jam hanno dimostrato sin dagli esordi, quando si dissociarono dalla Epic (etichetta della Sony) che imponeva loro video, tempi e stile di lavorazione; quando dichiararono guerra alla Ticketmaster, la compagnia che si occupa della prevendita dei biglietti dei concerti. Da sempre hanno limitato all’essenziale la promozione dei loro dischi, tenendo un comportamento sempre schivo e scettico nei confronti della stampa e televisioni.
Nel settembre scorso hanno dato alla luce il loro nono album intitolato “Backspacer”: dopo un lungo periodo trascorso ad affrontare la rabbia di trovarsi in un paese che non riconoscevano più, e a trasferire i sentimenti in musica, hanno scelto di cambiare strada, anche perché nel frattempo gli Stati Uniti sono cambiati, non c’è più George W. Bush e c’è Barack Obama.
Gli Alice in Chains nel panorama musicale di Seattle sono quelli più metal; dal genere Punk a differenza di altre band non hanno tratto nulla.
Nel periodo in cui il Grunge sta per raggiungere l’apice della notorietà, loro sognano di diventare celebrità nel panorama rock, riuscendovi.
Non che all’improvviso il sole abbia reso meno plumbeo l’insopportabile cielo sulle loro teste, ma vendere dischi è servito a dimenticare il peso delle catene della vita cui sono legati, prima di imporne altre.
I problemi esistenziali, uniti alla dipendenza da eroina infatti, logorano lentamente fino ad ucciderlo, Layne Stanley il leader degli AIC che si spegne il 5 aprile del 2002, esattamente otto anni dopo Kurt.
Il 29 settembre scorso però gli Alice In Chains sono usciti con nuovo album, “Black gives way to blue” ricevendo ottime critiche e esordendo nella classifica Billboard 200 al 5° posto: la band non entrava in top ten dal 1996. Layne è stato sostituito con William DuVall, ex leader di una band sconosciuta ai più (i Comes with the Fall, ndr) deludendo gli storici supporters del gruppo. Ma almeno loro sono stati chiari sin dall’inizio: vogliamo la gloria e la celebrità.
Del resto, han bisogno di campare anche loro…
Cosa pensare allora di Chris Cornell ex leader dei Soundgarden? Dopo lo scioglimento della band diventata famosa grazie a brani come “Black Hole Sun” e “Rusty Cage”, ha intrapreso dapprima una carriera da solista, poi ha messo su un’altra formazione (Audioslave, ndr) per poi lasciarla e darsi al genere pop in compagnia del noto produttore Timbaland?
Si pensava fosse incappato in qualche investimento sbagliato – dopo lo scandalo dei Subprime che ha messo in ginocchio l’America era probabile – invece lui candidamente nelle molte interviste rilasciate ha affermato che è il sound di “Scream” (l’ultimo album, ndr) quello che predilige e che gli anni del Seattle sound li ricorda con tristezza…
La conferma che il Grunge non è stato altro che uno specchietto per le allodole.
“Keep on rockin’ in a free world” direbbe Neil Young (padre putativo di molte delle giovani band di Seattle) scansando ogni etichettatura e ideologia, perché lo slancio per la trascuratezza è sempre venuto più naturale rispetto al desiderio di raggiungere una statura più elevata.
in collaborazione con Marco D’Andrea
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