La notizia turba da un paio di giorni il sonno degli importatori e, in definitiva, non potrebbe essere altrimenti. Con un annuncio decisamente poco rassicurante, il ministro per il commercio estero cinese Chen Deming ha sancito un nuovo significativo taglio alle esportazioni delle cosiddette “terre rare”, i preziosi elementi di cui il suo Paese è, di fatto, l’unico produttore mondiale. Nel primo semestre del 2011, la Cina ne esporterà sui mercati esteri circa 14.500 tonnellate, più o meno il 35% in meno rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente. Un taglio notevole che si somma al -40% registrato in tutto l’arco del 2010. Ma a lanciare un segnale inequivocabile al resto del mondo non ci sono solo cifre ufficiali quanto piuttosto un’importante novità di sicuro impatto. Per la prima volta Pechino avrebbe infatti deciso di fare davvero sul serio colpendo, come mai prima d’ora, il suo principale concorrente di mercato: il traffico illegale.
Una premessa. A costituire le cosiddette “terre rare” sono diciassette elementi poco conosciuti dai nomi scarsamente evocativi come, per citarne alcuni, scandio, lantanio, praseodimio, prometio e lutezio. Lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni ha contribuito alla loro diffusione visto che, tuttora, rappresentano materie prime insostituibili o quasi per una vasta gamma di produzioni: dai telefoni cellulari alle batterie delle automobili fino alle turbine eoliche e ai missili teleguidati. Dal 97 al 99% della produzione mondiale, si stima, si concentra in Cina, Paese che si è guadagnato una posizione di monopolio pressoché assoluto sul mercato. Solo che entro gli stessi confini del Paese si concentra un fenomeno non meno significativo e di grande impatto sul mercato: quello della produzione clandestina. Un segmento sommerso che, ha evidenziato oggi dalle pagine di Business Insider l’analista di Sitka Pacific Mike Shedlock, compensa da solo circa la metà dell’export cinese. Ovvero, in definitiva, circa il 50% delle esportazioni mondiali.
La vera novità, ha riferito pochi giorni fa il New York Times con un reportage esclusivo dal Guandong, nella Cina meridionale, è che le autorità di Pechino hanno avviato da qualche tempo sforzi mai visti per distruggere questa industria clandestina che minaccia di fatto l’efficacia delle scelte commerciali del governo. Nella provincia meridionale, dove si concentrano le maggiori miniere del Paese, le operazioni di estrazione e raffinazione illegale hanno fruttato da sempre enormi guadagni tanto da indurre qualche osservatore a paragonare questo genere di affari a quello non meno redditizio del traffico di droga. Le autorità locali hanno spesso fatto finta di niente facendo sorgere molti sospetti (per non dire assolute certezze) sulla diffusa corruzione alla base del successo dei traffici. Ma i bei tempi del business clandestino, pare di capire, sarebbero ormai prossimi alla conclusione.
Negli ultimi mesi, riferisce ancora il New York Times, squadre speciali della polizia hanno arrestato almeno un centinaio di operatori clandestine nel nord nel Guandong. Un’operazione della quale si è preferito non fare troppa pubblicità e i cui dettagli sono stati riferiti al quotidiano Usa da una fonte locale dietro la certezza dell’anonimato. A conferma del giro di vite sono arrivate le ultime valutazioni degli esperti del settore sullo stato dei mercati di confine, quelli, cioè, maggiormente esposti all’export illegale. “Siamo convinti che questa fonte di approvvigionamento stia diminuendo – ha spiegato al NY Times l’esperta di rare earth, e managing director della londinese Roskill Consulting, Judith Chegwidden – . Ci sono inoltre prove di una ridotta affluenza (di terre rare – ndr) attraverso la frontiera vietnamita”.
Per il mercato mondiale, ormai, l’emergenza è conclamata. Tanto per la scarsità delle risorse quanto, va da sé, per l’impennata dei prezzi. Tra le terre rare l’aumento minimo nel corso degli ultimi tre mesi, ha ricordato il Guardian, è stato del 40%. Il valore di mercato di una libbra di disprosio, rivela invece l’ultima relazione dello United States Energy Department, si scambia oggi a 132 dollari. Per accaparrarsi il medesimo quantitativo nel 2003 ne bastavano 6,5. Per gli importatori la sfida principale consiste ora nella ricerca di giacimenti alternativi e nell’avvio dello sfruttamento di quelli già conosciuti ma poco o per nulla utilizzati. Un’impresa comunque possibile visto che, nonostante tutto, la quota delle riserve cinesi rappresenta in realtà soltanto il 37% delle quelle conosciute nel Pianeta.
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