È giunta la pronuncia tanto attesa della Corte d’Assise di Torino sul caso Thyssen e la sentenza è davvero durissima. Non lo si può negare. In linea di principio, sembra sproporzionato considerare come “dolo eventuale” la decisione della società di posticipare i lavori di messa in sicurezza dell’impianto. La decisione della società può apparire biasimevole, ma non fino al punto di considerare i suoi amministratori alla stregua di consapevoli assassini. Per esprimere qualsiasi tipo di giudizio sul caso concreto vanno però letti gli atti processuali e soprattutto la motivazione della sentenza. Certo è che essa non riporterà in vita quei lavoratori caduti vittime nell’incidente.
La prima impressione è che si sia puntato su una sentenza tanto esemplare per ovviare all’inefficacia e agli evidenti limiti delle leggi e del sistema generale di tutela. Questo è quanto si può desumere anche dalle parole dello stesso Guariniello, che ha parlato di svolta epocale che potrà significare molto per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Questo punto di vista non è condivisibile e, anzi, la morte dei sette operai va vista piuttosto come un fallimento dell’impianto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e dell’attività di vigilanza sulla sua applicazione, che spetta ad organismi pubblici; insomma, è anche un fallimento del sistema.
Non si può facilmente prevedere il seguito che questa sentenza avrà, ma quello che è parso molto chiaro è che si vuole continuare a mantenere un approccio repressivo al tema della sicurezza sul lavoro. Un approccio sbagliato e inefficace, che trascura l’importanza della prevenzione. Che sia inefficace è sotto gli occhi di tutti; basti pensare al numero di morti bianche e incidenti sui luoghi di lavoro che si verificano ancora oggi in Italia, nonostante le tantissime e dettagliatissime leggi in materia.
Ci si dovrebbe invece domandare perché le imprese non investono in sicurezza. Le ragioni sono ovviamente di ordine economico. Le leggi prescrivono sempre nuovi obblighi, che si rivelano particolarmente onerosi per le imprese, a volte insostenibili; le imprese, quando e come possono, cercano di svincolarsi da questi obblighi e approfittano anche delle ispezioni eseguite in modo non esattamente capillare.
La strada da percorrere è diversa: si dovrebbe creare un sistema in cui ci sia la convenienza a investire in sicurezza. In altre parole, si dovrebbe abolire l’Inail e introdurre la logica di mercato nel sistema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Ciò indurrebbe gli imprenditori alla prevenzione, attraverso l’incentivo più forte, che è ovviamente quello di natura economica. Inoltre vi sarebbe un controllo più efficiente ed effettivo della sicurezza degli impianti e dei sistemi di produzione, poiché sarebbero le stesse compagnie assicurative ad assumersene l’onere, in quanto direttamente interessate alla gestione del rischio da parte delle imprese loro clienti. Le compagnie assicurative non sarebbero ovviamente disposte ad assicurare imprese in cui gli impianti sono mal funzionanti, in cui l’organizzazione della produzione implica per i lavoratori situazioni di eventuali rischi e in cui i lavoratori possono entrare in contatto con sostanze pericolose, senza che siano adottate le dovute precauzioni. Potrebbero eventualmente essere disposte ad accettare di assicurarle, ma a fronte di alti premi assicurativi. Sul mercato rimarrebbero soltanto quelle imprese davvero efficienti e in grado di sostenere economicamente l’onere della sicurezza.
Ma è una prospettiva che difficilmente sarà presa in considerazione…
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