Oltre 4 miliardi di euro: è questa la cifra che lo Stato ha illegittimamente preteso dai cittadini italiani a titolo di tassa di concessione governativa sui telefonini cellulari. 5,16 euro al mese per ogni utenza consumer e 12,91 per ogni utenza business, e così centinaia di milioni di euro all’anno (oltre 700 milioni nel solo 2010) addebitati ai cittadini direttamente attraverso le bollette delle compagnie telefoniche.
La tassa di concessione governativa, in realtà, stando a quanto si legge in una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto avrebbe dovuto considerarsi implicitamente abrogata sin dal lontano 2003 per effetto dell’entrata in vigore del codice delle comunicazioni elettroniche e della liberalizzazione del mercato. La privatizzazione del mercato, infatti – scrivono i giudici tributari – ha avuto “come principale conseguenza il passaggio dalla concessione (che è un atto amministrativo emanato nell’ambito di un rapporto pubblicistico con una posizione di preminenza della Pubblica Amministrazione sui privati) al contratto, cioè ad uno strumento di diritto privato che presuppone una posizione di parità tra i contraenti. Bisogna perciò concludere – proseguono i Giudici – che con il D.lgs. 259 [il Codice delle Comunicazioni elettroniche del 2003, ndr] è stata abrogata tacitamente tutta la normativa basata sul presupposto di un rapporto concessionario di tipo pubblicistico ed è venuto quindi meno il presupposto per l’applicazione della Tassa di concessione Governativa”.
Lo Stato, dunque, dopo aver liberalizzato il mercato ha continuato a pretendere centinaia di milioni di euro come se nulla fosse cambiato fingendo di non essersi accorto che il balzello che continuava ad esigere dagli italiani era, evidentemente, incompatibile con il nuovo assetto di mercato. Come se non bastasse, l’Agenzia delle Entrate, nel corso del giudizio che ha poi dato origine alla decisione della Commissione Tributaria regionale del Veneto ha strenuamente provato a difendere la propria posizione con argomentazioni ed eccezioni da azzeccagarbugli che, fortunatamente, non hanno fatto presa sui Giudici Tributari.
E’, d’altra parte, comprensibile – ma non per questo condivisibile – che, specie in tempo di crisi, lo Stato non abbia avuto alcuna intenzione di rinunciare ad un tesoretto di centinaia di milioni di euro l’anno incassato dai cittadini, tassando il telefonino cellulare, che in Italia è più diffuso rispetto ad ogni altro Paese europeo.
E pensare che dall’aprile del 2008, giace in Parlamento, un disegno di legge presentato dall’onorevole Stucchi (Lnp) attraverso il quale si proponeva, appunto, di abrogare la disciplina impositiva della tassa di concessione governativa. L’esame del disegno di legge, tuttavia, ad oltre tre anni dalla sua presentazione non è ancora neppure iniziato.
E ora? I cittadini e le imprese che hanno versato indebitamente alle compagnie telefoniche centinaia di milioni di euro poi rigirati all’erario hanno, evidentemente, diritto a riaverli indietro almeno limitatamente agli ultimi tre anni (oltre, sfortunatamente, non sono ammesse istanze di ripetizione di trubuti ancorché indebitamente versati). Si tratta di circa 186 euro per i titolari delle utenze consumer e di circa 465 euro per i titolari di utenze business. Sarebbe auspicabile che lo Stato, a questo punto, facesse almeno il bel gesto di dichiararsi disponibile alla restituzione del maltolto senza costringere cittadini ed imprese ad avviare lunghe e costose iniziative giudiziarie.
La montagna di soldi incassata tra il 2003 ed il 2007, ovvero almeno un paio di miliardi di euro, sembra, invece, destinata a rimanere nelle casse dell’Erario. In un Paese normale e capace di guardare al futuro, probabilmente, qualcuno proporrebbe di investirne una parte – non ha importanza sottraendola a cosa – per dotare, finalmente, il Paese dell’infrastruttura di telecomunicazione a banda larga che merita. In questo modo un fiume di denaro dragato indebitamente dal mercato delle telecomunicazioni mobili, verrebbe, almeno, utilmente reimpiegato per promuovere Internet e la comunicazione del futuro. Difficile, tuttavia, credere che questo possa avvenire nel nostro Paese. Ma nessuno può negarci il diritto di chiederlo.
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