sabato 12 marzo 2011

Il caro benzina, i petrolieri e la finanza

Il caro benzina, i petrolieri e la finanza: "

Gli aumenti dei carburanti decisi da alcune compagnie petrolifere continuano a far discutere. Oggi siamo sul prezzo conuigliato della verde tra 1,57 e 1,58 euro al litro. Al Sud, tre giorni fa la benzina verde è giunta a punte di 1,611 euro al litro. Le oscillazioni inj centesimi di questi giorni si devono all’altalena della controffensiva di Gheddafi rispetto ai primi riconoscimenti agli insorti come oggi quello di sarkozy, l’incertezza delle azioni militari internazionali, le notizie di pressioni crescenti sull’Arabia Saudita per un possibile aumento della produzione dell’Opec. Tra greggio WTI sulla piazza americana e Brent su Londra continua unam forbice sui 12 dollari finio a 14 nei momenti di massima tensione. Ma chi è più colpevole del caro benzina? Gheddafi? La speculazione? Le tasse di Stato? I petrolieri? Per capire come si forma il prezzo alla pompa – un classico che si deve sempre ripetere, mi scusino gli addetti ai lavori che lo sanno – e le sue conseguenze sull’economia, cominciamo da quest’ultimo punto. Per l’Italia, che ha una dipendenza sul totale del suo consumo energetico pari all’85% fatta soprattutto di petrolio e gas, l’impatto è maggiore e più rapido nei suoi effetti che per la media degli altri Paesi avanzati. Nel più dei report sulle conseguenze del rincaro petrolifero sulla crescita, la soglia “recessione” per i Paesi avanzati, se vi si dovessero stabilizzare i prezzi per un trimestre o due almeno, è stimata sui 135-140 dollari. Per il nostro Paese, i 17-18 dollari accumulati dal barile in poche settimane, se dovessero stabilizzarsi in caso di crisi libica perdurante, già comportano un peggioramento della bilancia dei pagamenti su base annua pari allo 0,4% del Pil, e una minor crescita pari fino a un terzo di punto. Se sommate i due dati, si arriva allo 0,7% di Pil di cui parla oggi Confindustria. Poiché la nostra crescita è più bassa di quella americana e tedesca – Berlino ha alzato dal 2 al 2,5% la crescita attesa nel 2011 dopo il più 3,6% del 2010 – è ovvio che noi siamo più esposti a conseguenze negative. Un po’ di pazienza in più occorre invece per capire ciò che fa regolarmente imbestialire i consumatori, convinti che i rapidi rincari alla pompa siano in realtà prova ed espressione della proverbiale avidità delle compagnie. In realtà, non è così anche se a dirlo, per esperienza, si viene facilmente accusati di essere servi dei petrolieri.


Il prezzo finale dei carburanti è costituito dalla somma di tre componenti. La prima è la quotazione dei prodotti per autotrazione “finiti”, cioè raffinati, un prezzo che si forma su una piattaforma privata, la PLATTS, sulla quale liberamente si incrocia domanda e offerta, e che a sua volta è distinta anche in sottopiattaforme per aree geografiche. La nostra è quella europea mediterranea. Ovviamente , sul prezzo PLATTS ha un impatto primario l’andamento del costo del barile, e nel nostro caso dunque anche il rapporto di cambio tra euro e dollaro, che vede oggi la moneta europea svantaggiata perché più debole, rispetto ai picchi petroliferi della sua quotazione sul dollaro ai tempi di 147 dollari al barile nel 2008.


Senonché in questo meccanismo di libera formazione del prezzo industriale dei carburanti non pesa solo la stima della domanda e dell’offerta: infatti il totale dell’intera offerta libica a pieno pompaggio sul mercato superava di poco il 2,3% dell’offerta quotidiana complessiva sui mercati mondiali. E’ ovvio che per salire di 20 dollari oltre in poche settimane conti anche l’allarme sulla possibile estensione della crisi dal Maghreb alle monarchie del Golfo, grandi estrattrici. Ma accanto a queste dinamiche “concrete” c’è anche pura finanza. Ci sono infatti anche due diversi livelli di interventi di capitali da parte di operatori non commerciali del settore, quelli che abitualmente si usa definire “speculatori”: hedge funds, fondi specializzati in materie prime, arbitraggisti di tutto il mondo, desk finanziari di banche d’affari e commerciali, broker nonché pool di traders che hanno soglie di capitali da scommettere non troppo basse – qualche milione – con put e call, cioè soglie di prezzo di entrata e uscita dal mercato, che possono durare da una notte a poche ore.


Come su ogni prezzo, si può scommettere e guadagnare a brevissimo con tali meccanismi sia sui diversi mercati – americano e britannico – in cui si formano i prezzi del petrolio greggio. Sia, in concomitanza, sulle diverse sottopiattaforme PLATTS in cui si forma – tra gli altri – anche il prezzo industriale dei prodotti raffinati. Dopo le punte più roventi della crisi finanziaria seguita al record del barile nel 2008, la quantità di “scommesse” non commerciali operanti sui due diversi livelli era fortemente scesa. Eravamo passati da picchi fino a 400 miliardi di dollari nelle ore calde del pre-picco a 147-148 dollari, a poche decine di miliardi nel secondo e terzo trimestre dell’anno scorso.


E’ ovvio che alla ripresa dei prezzi, avanzando il 2010, la maggior volatilità ha ripreso ad attirare masse crescenti di liquidità. Sul “nostro” PLATTS è ovvio che si concentrino, visto che la Libia sta nel Mediterraneo. Così siamo tornati a medie di 300 miliardi di dollari e oltre, tra “sopra” sui mercati swap del barile , e “sotto” su quelli swap dei prodotti raffinati. E’ chiaro che si tratta di fenomeni che spingono verso l’alto i prezzi industriali. E fanno insieme felice la FED. Con i suoi massicci acquisti sui mercati per sostenere debito pubblico e privato, l’autorità monetaria americana crea base monetaria che – non più sterilizzata dal sistema bancario come invece avviene in Europa – diventa subito massa monetaria sui mercati: l’ingente liquidità prende la via degli impieghi più remunerativi a breve, quelli speculativi, e insieme attraverso i mercati delle commodities trattati i dollari contribuisce a “spalmare” inflazione americana nel resto del mondo. Cosa che agli USA non può che far piacere visto che diminuisce il valore reale dei propri debiti.


Questa lunga spiegazione per dire che non ha tutti i torti, chi dice che oltre alla vicenda libica e maghrebina c’è “anche” una responsabilità della finanza – non mi piace il termine speculazione - nella formazione del prezzo della benzina. Alzare i margini per partecipare a tali mercati – cioè prevedere poste più elevate per sedersi al tavolo, e proporzionate a quel che si scommette – è la classica promessa che si ripete da anni ma non si decide mai, perché chi l’adottasse da solo perderebbe clienti.


Intendiamoci, per arrivare al prezzo finale bisogna sommare al prezzo PLATTS – che pesa più o meno il 35% – un 10% di margine industriale ai petrolieri italiani che raffinano, trasportano, e distribuiscono assicurando aggio agli esercenti, nonché un 55% di somma tra accise e IVA. E anche qui c’è qualche magagna. Perché il nostro 55% di costo della benzina in tasse è un’enormità, ma in realtà è inferiore al 58%, media dei 17 Paesi dell’euroarea, come al 58,4% del Francia e al 61,3% della Germania. Eppure sia nella media dei Paesi euro, che in Francia e Germania alla pompa la benzina costa meno. Non solo perché il PLATTS per loro è più basso, perché sono meno dipendenti dall’estero di noi, ma anche perché in Italia continuiamo ad avere un sistema distributivo dei carburanti inefficiente, troppo disperso e costoso sul territorio, che la politica non riesce mai a toccare, timorosa delle reazioni della categoria. E così, tra Gheddafi e la speculazione, tasse e inefficienza distributiva, alla fine a pagare siamo sempre noi. Ma i petrolieri, nelle serie storiche, guadagnano marginalmente assai più quando i prezzi sono in discesa che quando salgono, come ha innumerevoli volte dimstrato numeri alla mano il nostro impareggiabile carlo Stagnao"

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