“Questo è un paese infarcito di una infinità di regole la cui violazione è abitualmente tollerata. Un paese serio è un paese dove ci sono poche regole fatte ferreamente rispettare. Questa è la differenza fra il suddito e il cittadino: il suddito è un soggetto cui sono imposti infiniti obblighi e infiniti divieti; normalmente gli si permette di farne strame ma se alza la testa gli si chiede conto e ragione di tutte le violazioni fino a quel momento perpetrate. Il cittadino è un uomo a cui sono imposti pochissimi obblighi, pochissimi divieti per la cui violazione non c’è perdono, non ci sono il condono edilizio, il condono fiscale, l’amnistia, l’indulto: c’è il rigore. Ma, rispettati quegli obblighi, è un uomo libero e più nessuno può infastidirlo”.
Piercamillo Davigo
Sono tecnicamente un pregiudicato.
Prima o poi doveva capitare ed è capitato. Ma nella mia ingenuità mi prefiguravo che il momento del passaggio alla categoria ufficiale dei delinquenti avvenisse in modo più emozionante: dopo regolari gradi di giudizio, udienze estenuanti, un’altalena di deduzioni e controdeduzioni, prove, appelli, testimonianze, il timbro finale della Cassazione. Niente di tutto questo è avvenuto.
L’ho scoperto ieri. Me l’ha comunicato il mio avvocato: in una casuale verifica del mio casellario giudiziario, ha scoperto che ho subito una condanna definitiva a 790 euro di multa, della quale non sapevo niente.
La notizia criminis. Un mio speech all’Università Statale di Milano, tenuto il 19 febbraio 2007, a margine di un convegno a porte chiuse, presenti il ministro dell’Interno dell’epoca Giuliano Amato e l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni.
Il reato. Ero in compagnia di tre o quattro amici, ma il reato di riunione non autorizzata (la solita storia: violazione dell’articolo 18 del Testo Unico di pubblica sicurezza) è stato imputato solo a me.
I fatti. Io e i miei amici intendevamo partecipare al convegno, di cui avevamo letto sui giornali, riservandoci di interpellare Paolo Scaroni sulla condanna per corruzione da lui patteggiata durante l’inchiesta Mani Pulite. Per evitare fuori-copione la polizia transennò i chiostri, impedì l’accesso al convegno a curiosi e studenti, ci piantonò a vista dietro le transenne. Io allora spiegai le ragioni della nostra presenza a una piccola folla di passanti, altri amici diffusero dei volantini su Scaroni. Nel frattempo apparve il prof. Gianandrea Goisis e interloquimmo vivacemente anche con lui, chiedendogli conto dei suoi rapporti con la Banca Popolare di Lodi e con Giampiero Fiorani.
La denuncia. L’episodio non ebbe strascichi, almeno così sembrava. Ce ne tornammo serenamente a casa. Non ricordo nemmeno una identificazione da parte della polizia. Ma qualcuno evidentemente voleva farcela pagare. Dalla questura (lo ricostruisco oggi) partì una denuncia alla procura della repubblica di Milano per riunione non autorizzata. Una delle tante, che raramente hanno prodotto un esito giudiziario e MAI (fino a questo episodio) una condanna in giudizio.
Il decreto penale. Quando la polizia invia queste denunce in procura, possono accadere due cose: la prima, la denuncia è presa in mano da un sostituto procuratore di tipo A, che legge, capisce al volo che si tratta di una stupidata e archivia o avvia un minimo di indagine per capire meglio; la seconda, la denuncia viene presa in mano da un sostituto procuratore di tipo B, che non pensa che si tratti di una stupidata, si fida della polizia e propone un decreto penale di condanna (forma di giudizio senza dibattimento, inventata per sveltire le procedure per i reati minori) a una multa. Devo aver incontrato un sostituto procuratore di tipo B.
La condanna. A questo punto le carte passano al giudice di turno, il quale può firmare il decreto penale o rispedire il fascicolo all’ufficio del pubblico ministero. In questo caso ha firmato, condannandomi senza processo e senza nemmeno guardarmi in faccia a una multa di 790 euro.
L’opposizione al decreto. Che cosa accade dopo una condanna per decreto penale? Se l’imputato decide di pagare la multa (o comunque non intende difendersi in giudizio), tutto finisce lì e la condanna entra nel casellario. Se l’imputato decide di difendersi in un regolare dibattimento, fa ricorso entro quindici giorni annullando di fatto la condanna. Per poter decidere il da farsi, l’imputato deve però sapere di essere stato condannato per decreto penale.
La notifica. La comunicazione dell’avvenuta condanna per decreto si chiama notifica. Di solito la esegue un ufficiale giudiziario. In alcuni casi anche i carabinieri. Se l’imputato non ha eletto domicilio presso un avvocato, e come potrebbe nel caso in cui sia ignaro della denuncia e della condanna?, la notifica viene eseguita all’indirizzo di residenza. Ebbene, posso affermare di non aver ricevuto direttamente alcuna notifica. Quando non trova nessuno a casa - mi dicono gli esperti - l’ufficiale giudiziario lascia un avviso scritto dicendo di ritirare la notifica presso gli uffici comunali. Ma anche di questo avviso non ho rinvenuto traccia alcuna. Domande. Chi mi garantisce che sia stato davvero lasciato nella buca delle lettere? E davvero una sentenza penale può essere affidata a un foglietto in una buca delle lettere?
La mancata impugnazione. Non avendo avuto notizia del decreto di condanna, ovviamente non ho potuto fare opposizione entro i canonici quindici giorni. Ecco il motivo per il quale la cosiddetta condanna è diventata definitiva. Se ne avessi avuto notizia, avrei certamente fatto ricorso. Sarei andato più che volentieri a processo. E sarei stato con tutta probabilità assolto, per lo stesso motivo per il quale sono stato assolto lo scorso aprile da un’analoga accusa: non commette il reato di riunione non autorizzata chi non mette concretamente a rischio la sicurezza pubblica.
La multa. Lo Stato per ora non mi ha chiesto di pagargli la multa alla quale mi ha condannato in questo modo.
E ora? Quel che posso fare è chiedere di vedere il fascicolo, ormai archiviato. E verificare il modo in cui è, anzi sarebbe stata eseguita la notifica. Se riesco a dimostrare che la notifica non è stata eseguita correttamente, la condanna è annullata. Se per qualche cavillo (in Italia i cavilli non mancano mai) non riesco a dimostrarlo, la condanna è confermata.
La morale. Quel 19 febbraio, come sempre, non ho e non abbiamo commesso alcun reato. Ho e abbiamo fatto qualcosa di positivo, diffondendo informazione, esprimendo la nostra riprovazione morale verso situazioni più che discutibili, cercando di scuotere le persone dall’indifferenza. Semmai un torto l’abbiamo subito, visto che ci è stato impedito, per discriminazione politica, di partecipare a un convegno pubblico. Il sistema poliziesco-giudiziario ormai serve a garantire i vip del crimine e a perseguire i deboli, e tra i deboli mostra una predilezione verso coloro che osano alzare un po’ la testa in difesa di una certa idea di giustizia. Il reato di riunione non autorizzata si conferma l’espediente di stampo fascista per tenere sotto scacco i dissidenti e per vendicarsi nei confronti di coloro che non stanno zitti: la digos lo usa esattamente in questo modo. Tra i magistrati esistono burocrati che condannano e chiedono condanne per un reato inesistente, senza nemmeno informarsi sui fatti: difendere l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, come abbiamo fatto e continueremo a fare, non significa difendere magistrati di questo tipo. Un sistema che, nel silenzio pressoché generale, si tiene come cavaliere del lavoro e capo di una di una maxi-azienda un pregiudicato per corruzione mentre condanna senza dargli la possibilità di difendersi chi lo dice in pubblico, è un sistema marcio. Nonostante il disgusto, mi farei condannare altre cento volte pur di continuare a contrastarlo, nell’esercizio esclusivo della mia libertà di espressione.
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