Fino a ieri nel centrodestra a confessare con chiarezza come stavano le cose ci avevano provato, inutilmente, più o meno tutti. Persino Silvio Berlusconi che già a inizio del 1994 aveva spiegato a Indro Montanelli: “Se non entro in politica finisco in galera e fallisco per debiti”. Un concetto semplicissimo. Facile da comprendere. Ribadito sei anni dopo, in un’intervista a La Repubblica, anche da Fedele Confalonieri. “La verità”, diceva il miglior amico del premier, “è che se Silvio non avesse fondato Forza Italia noi oggi saremmo sotto un ponte o in prigione con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel lodo Mondadori”.
Ma ci sono voluti 16 anni perché tutti capissero che, dietro la sedicente rivoluzione liberale del leader del Pdl, non c’era altro che il desiderio di difendere i privilegi e la roba. E sono state necessarie decine, anzi centinaia, di dichiarazioni, leggi ad personam e di plateali violazioni del principio della separazione dei poteri, tutte regolarmente prese sotto gamba.
Così adesso, mentre volano gli stracci e i capi popolo di quella che fu l’invincibile armada del Cavaliere si accusano a vicenda di aver partecipato alla vita pubblica solo per concludere al meglio i propri affari, viene da chiedersi come sia stato possibile tutto questo. Viene da domandarsi perché nessuna voce (o quasi) si sia levata quando l’ex ministro del primo governo Berlusconi, Giuliano Ferrara, rivelava inverecondo che “in Italia per far politica bisogna essere ricattabili. Visto che nell’ambiente politico devono sapere qual è il tuo prezzo e quanto è lungo il tuo guinzaglio: se non sei ricattabile, non sei controllabile”. O perché quando Claudio Magris, dalle colonne de Il Corriere della Sera, scriveva che “spetta agli uomini onesti d’ogni parte ribellarsi a questa indegnità politica, egualmente pericolosa e lesiva per tutti, che disonora l’Italia”, nessuno si sia ribellato.
Certo, come ha spiegato il sociologo Vilfredo Pareto, “le oligarchie cadano di schianto”. E quella che ha governato quasi ininterrottamente il Paese a partire dalla fine di Mani Pulite è stata senza dubbio un’oligarchia. Lo dimostrano le facce e i volti gonfi e lividi dei suoi protagonisti (di destra e di sinistra) ai quali non basta nemmeno più il lifting per nascondere l’impietoso incedere degli anni.
Eppure nessuna delle accuse che oggi si rinfacciano i signori della Casta era un vero segreto. Di tanto in tanto sui giornali e su qualche libro si leggeva che davvero, come ulula oggi Pierferdinado Casini, “Umberto Bossi trafficava in banche e quote latte”. La storia della Crediteuronord, la banca della Lega salvata dal crac dalla Banca Popolare di Lodi in cambio dell’appoggio del Carroccio alla scalata Antonveneta, è stata scritta. E è anche stato scritto (senza che nessuno sporgesse denuncie per calunnia) come il big boss Bpl Gianpiero Fiorani, una volta in manette, abbia raccontato di aver versato centinaia di migliaia di euro al ministro, Roberto Calderoli, poi uscito dalla vicenda giudiziaria solo perché il presunto tramite, l’ex ministro a tempo Aldo Brancher, non ha confermato le sue parole. Perfettamente noti sono pure i molti scandali, conditi di mafia, mazzette ai giudici e ai testimoni, che hanno coinvolto il Cavaliere e i suoi uomini. Come pure è noto che il motivo, per cui Berlusconi vuole restare inchiodato alla poltrona, è uno solo: evitare di venir processato e condannato. Tanto che da mesi, il suo ventriloquo Giorgio Straquadanio, spiega senza infingimenti: “Va detto chiaramente noi siamo favorevoli alle leggi ad personam”.
Una posizione che trova proseliti convinti anche nell’Udc. Un partito nel quale si sostiene che una legge scudo per il premier (e magari per tutti gli altri parlamentari) si può fare a condizione che venga inserita nella Costituzione. Nulla di sorprendente per un movimento che basa buona parte della sua forza elettorale sui voti raccolti da Totò Cuffaro, un ex Dc a un passo dalla galera dopo due condanne in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia. Una vicenda giudiziaria che (nonostante le smentite) potrebbe ora spingere Cuffaro e una dozzina di parlamentari a lui fedeli a sostenere il moribondo esecutivo del Cavaliere.
Gianfranco Fini, infatti, non tornerà indietro. Non vuole e non può. Ha fatto della legalità il suo grido di battaglia. E non importa che le cronache di settimanali e giornali siano ricche di episodi dai quali emerge come pure per lui le accuse di nepotismo e favoritismo non siano certo una novità. Degli appalti in Rai della famiglia Tulliani (piccoli per la verità) scriveva Dagospia nel 2009. Mentre i rapporti dei suoi fedelissimi con il mondo oscuro delle offshore caraibiche che controllano in Italia migliaia di slot machine sono al centro di articoli de L’espresso già del 2004. La differenza è che allora (e fino a ieri) nessuno ci faceva caso. E il perché è semplice. Queste e altre storie emergevano – se andava bene – di tanto in tanto sulla carta stampata. O al massimo facevano capolino sulla Rete, quando ancora il Web era una faccenda quasi da iniziati. In tv, nei telegiornali invece non passava nulla. E la Casta, poteva mentire sempre, senza temere di essere smentita. Perché, come ha scritto Giovanni Sartori, “dove la tv è libera le bugie hanno gambe corte, mentre da noi hanno le gambe lunghissime”. Oggi la tv non è cambiata. Il controllo sull’informazione resta ferreo. Ma è stata la Casta a cominciare ad andare in pezzi. Forse per una congiura di palazzo. Forse perché alla fine, anche da quello parti, qualche uomo vero c’è. E ciò che prima non veniva detto, non può più essere nascosto. Lo chiamano sputtanamento. Ma, a ben vedere, è la via – tutta italiana – verso un brandello di verità e un simulacro di democrazia.
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