Sono 35 mila le vittime del crac Cirio: per loro sarà un “nulla di fatto”. E tutto questo per salvare B.
Il processo breve, anzi morto, li priva dell’ultima speranza: quella di poter avere giustizia. Sono i cittadini vittime dei reati che non saranno più perseguiti, giudicati in processi che saranno bloccati, fermati, azzerati a centinaia.
Per salvare un imputato eccellente, Silvio Berlusconi, a giudizio in due processi a Milano, migliaia di persone non avranno giustizia.
Sono le vittime delle truffe Cirio (35 mila) e Parmalat (100 mila), sono i pazienti della "clinica degli orrori", la Santa Rita di Milano, sono i malati di cancro a causa dell’amianto e le famiglie dei morti.
Sono le donne stuprate, che d’ora in poi ancor più difficilmente riusciranno a veder condannati gli stupratori. Un numero incalcolabile di persone, un folla immensa, che quando la legge salvaSilvio sarà approvata anche dalla Camera non avranno più nulla da sperare dalla giustizia.
Antonio Catanese è rassegnato. Ha 70 anni, vive a Monza, credeva di essersi attrezzato per una vecchiaia serena. Ha lavorato tutta la vita nell’azienda di famiglia, che produceva manichini per le vetrine dei negozi di mezza Italia.
Poi è rimasto coinvolto nel crac Cirio. Su consiglio (interessato) delle banche, tra il 2000 e il 2002, i clienti di molti istituti di credito – Capitalia di Cesare Geronzi in testa – avevano acquistato bond Cirio per quasi 2 miliardi di euro. Tasso d’interesse tra il 6 e l’8 per cento, emesso da scatole estere, domiciliate e quotate in Lussemburgo.
Nel 2004 Cirio mostra all’esterno le prime difficoltà. Il 4 novembre 2004 è dichiarato ufficialmente il crac. Da anni l’azienda di Sergio Cragnotti era indebitata fino al collo con le banche. Aveva risolto il problema chiedendo soldi al mercato. Aveva emesso obbligazioni. Ma le stesse banche che curavano il collocamento dei titoli poi li rivendevano ai loro clienti.
Come natura crea, Cirio estingueva i debiti col mondo bancario scaricandoli sui cittadini. Antonio Catanese è uno dei 35 mila. "Avevo qualche problema di rapporti con uno dei miei fratelli. Allora, invece di litigare, ho preferito chiedere di essere liquidato. Gli ho venduto le mie quote dell’azienda e ho pensato: userò questi soldi per garantirmi un futuro tranquillo. Ho una pensione: 471 euro al mese. È chiaro che per vivere non basta. Una persona che conoscevo bene, promotrice finanziaria di Banca Fideuram, mi ha detto: investi in obbligazioni Cirio. Sono sicure. Mi sono fidato. Era il 2002. Ho investito 55 mila euro. Nel 2004, non mi è arrivato il pagamento della seconda cedola sulle obbligazioni. Chiedo in banca, mi dicono: sì, c’è qualche problema, ma si risolverà. Poi ho cominciato a leggere i giornali: la Cirio era in default", scandisce bene Catanese.
"Non mi sono rassegnato. Mi sono affidato all’Adusbef, l’associazione dei consumatori e utenti molto attiva sulle questioni bancarie e finanziarie. Sono stato assistito splendidamente dall’avvocato di Milano Marisa Costelli". Ma a questo punto Catanese sente che la rassegnazione si trasforma in rabbia: "Sì, ero convinto fin dall’inizio che non sarei riuscito a recuperare tutti i miei soldi. Ma almeno speravo che ci fosse un processo, una sentenza, delle condanne. Per Cragnotti, patron della Cirio, che l’ha portata al fallimento. Per i responsabili delle banche che si sono liberati dei bond Cirio scaricando il loro debito su di noi, ignari risparmiatori. Ora invece, con questa bella legge che si è fatto su misura, lui salva se stesso e i suoi amici. E lascia noi senza neppure la soddisfazione morale di vederli processati e condannati, i responsabili. Non dico di avere indietro i miei soldi, ma almeno di vedere la fine del processo. Niente: ci tolgono anche questo".
Mentre la rabbia sale, Catanese prova a guardare con distacco la sua situazione. "Io lo so che sarebbe meglio avere un processo veloce. Ma so anche che un conto è un reato come la guida senza patente: il processo si fa in un quarto d’ora. Un altro conto è cercare di giudicare i signori delle banche, che fanno di tutto per farla franca. Ebbene, i magistrati devono riuscire ad arrivare alla fine del processo anche per loro, non soltanto per chi guida senza patente. Se vogliono abbreviare i tempi, il ministro, la politica, diano più mezzi ai magistrati per fare il loro lavoro. Ho visto con i miei occhi i topi nell’archivio della Corte d’appello di Milano, dove ero andato a cercare una vecchia sentenza: è mai possibile che lascino in questo stato la giustizia? Adesso io ho la mia pensione, 471 euro al mese, e 55 mila euro in meno, che nessuno mi restituirà. Per me erano tre anni di vita. Per ora ce la faccio, ho qualche altro risparmio da parte. Ma se vivrò a lungo, a un certo punto che cosa farò? Dovrò andare a vivere sotto i ponti? E poi, al di là dei soldi persi, la rabbia mi viene per la giustizia negata: per salvare lui, io ho perso ogni fiducia, non ho più speranza in niente".
Da il Fatto Quotidiano del 22 gennaio
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Truffati un'altra volta
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