sabato 20 febbraio 2010

Goldman Sachs, la Grecia e la storia

Goldman Sachs, la Grecia e la storia: "

Giornalisticamente è stato uno scoop e non si discute, quello del New York Times. Quando il 14 febbraio Louise Story, Landon Thomas e Nelson Schwarz hanno rivelato che fino a poche settimane prima che la Grecia divenisse l’epicentro dell’eurodramma il presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, e un team dei suoi migliori liabilities arrangers trafficavano incessantemente con il Tesoro di Atene per mascherare decine di miliardi di euro di debito pubblico, in poche ore tutti i media mondiali rimbalzavano la storia in ogni schermo e pagina. Una storia che ci dice insieme delle vecchi ma persistenti strategie di Goldman e delle residue grandi banche d’affari anglosassoni, ma anche dei vizi dei governi. Perché, da quel punto di vista, i governi purtroppo sono più o meno sempre eguali, da secoli e millenni. Tendono a mascherare i deficit e debiti pubblici, e a ricercare il compiacente appoggio dei banchieri per riuscire nell’intento.

Solo che, per restare nella modernità e non affondare nella notte dei tempi, il rapporto tra governi e banchieri, in questo, col tempo si è del tutto ribaltato. In almeno tre fasi. Agli albori del mercato e della modernità, nei secoli tra il Duecento e il Seicento, era il sovrano a tenere le briglie, e il banchiere a rischiare testa o portafoglio. La testa, come capitò ai Templari che rifiutavano nei primi anni del Trecento il proprio tesoro a Filippo il Bello, sull’orlo dell’insolvenza. O comunque la faccia, come capitò alle compagnie fiorentine dei Bardi e dei Peruzzi, andate rovinosamente fallite tra il 1345 e il 1347 quando Edoardo III d’Inghilterra ripudiò selettivamente il suo debito ai prestatori esteri, rifiutando la concessione di servizi commerciali e beni patrimoniali che erano a garanzia del prestito (che “valea il reame”, scrisse Giovanni Villani nelle sue Cronache Fiorentine).

Ma il mercato è fatto apposta per trarre lezione dagli errori. E i banchieri si fecero furbi. Dai Fugger tedeschi alle Libere compagnie mercantili di navigazione olandesi e scandinave – ben distinte da quelle “reali” come in Francia – fino all’apogeo dei Rothschild in tutto l’Ottocento, il banchiere prestatore ai governi imparò a diversificare il proprio portafoglio, e a esigere garanzie la cui negazione avrebbe comportato, per il re d’Inghilterra o di Prussia, un vero tracollo internazionale in un mondo che si era fatto mercantilista. Le coalizioni antinapoleoniche vinsero alla fine per l’oro preminente che le garantiva. Dal Congresso di Vienna fino al primo conflitto mondiale, i debiti pubblici dell’intera Europa si ressero per due terzi su garanzie di banchieri privati della piazza londinese, e per un terzo di quella francese. L’Italia Unita senza Roma nacque così, più per quel che i Savoia dovevano finanziariamente a Parigi che per la minaccia degli zuavi. La Triplice scoprì a sue spese, nella prima come nella seconda guerra mondiale, che credere di sostituire il proprio acciaio all’oro anglofrancese e poi angloamericano era un’illusione.

E siamo al terzo tempo. Quello della globalizzazione in cui il denaro costa poco o nulla, visto che nel quindicennio precrisi attuale il mondo anglosassone credeva di aver vinto l’inflazione e il debito pubblico, crescendo a debito grazie a tassi bassissimi e ad acquisti massicci di titoli da parte dei cinesi. In questi anni, swap come quelli proposti da Goldman Sachs alla Grecia non sono affatto uno scoop. Per dirne solo una, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, in un intervento del suo capoeconomista all’appuntamento agostano 2007 di tutti i banchieri centrali a Jackson Hole, calcolava che gli swap realizzati dalle prime cinque banche d’affari al mondo ai 32 governi dei Paesi Ocse negli anni tra il 2001 e il 2005 fossero ammontati ad almeno 325 miliari di dollari! Erano gli anni nei quali i governi si proteggevano dal rischio che improvvisamente, dopo la crisi dell’11 settembre, Greenspan potesse mutare i tassi d’interesse tornando ad alzarli, dall’1 e poco più per cento dove li aveva abbassati per evitare la recessione. Non accadde – purtroppo! – ma l’occasione rese l’uomo di governo ladro, e il banchiere ancor più furbo. Pieni di miliardi a basso costo e con revenues e utili stragonfiati dalla finanza sintetica, le big five hanno preso sempre più a ingraziarsi i governi proponendo “finti” swap di copertura valutaria. Non più per proteggersi dai tassi futuri esteri, bensì solo per operazioni di window dressing contabile. Un deficit sanitario e previdenziale veniva anticipato dalla banca d’affari e trasformato in una scommessa sui cambi a tot anni, et voilà, il debito apparentemente diminuiva, sostituito da denaro fresco, e l’onere sarebbe ricaduto sui governi e le generazioni successive. In cambio, alle banche prestatrici si aprivano i canali della riconoscenza dei governi, per consorzi di collocamento di titoli pubblici, privatizzazioni, fusioni o privatizzazioni di banche e società pubbliche: hai voglia, quanti incontri a raffica sono avvenuti in tutta Europa come quello famigerato che ancora fa scandalo nelle cronache italiane, sul Britannia, quando si trattò di avviare le grandi privatizzazioni italiane 16 anni fa.

Sono le banche d’affari, colpevoli? No. Neanche nel caso greco. Finché le regole resteranno queste, fanno il loro mestiere: tutto l’utile che si può, dove si può e con chi si può. Sono i governi, che dovrebbero stabilire di limitare gli swap al solo campo esclusivo delle partite patrimoniali i cui valori reali possono mutare al mutare del cambio. Un conto è swappare cespiti che si detengono fuori dall’euroarea, o obbligazioni verso e da terzi in dollari o yuan. Altro conto, e dovrebbe essere vietato tassativamente da Eurostat, swappare partite correnti di deficit pubblico domestico di qualunque natura, sanitaria, previdenziale o infrastrutturale. Tanto per cambiare, a Goldman se la ridono. E’ l’Europa, a far piangere.


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