Nel giorno del diciottesimo anniversario dell’inchiesta Mani pulite (Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio 1992) chiunque continua a parlare di «nuova Tangentopoli» straparla o più semplicemente ignora. Che poi, a voler fare i precisi, il procedimento contro «Chiesa Mario» nacque in realtà nel settembre 1991, giacché la prima richiesta di proroga delle indagini – senza la quale un fascicolo, dopo sei mesi, dovrebbe essere chiuso – fu infatti del marzo 1992. Nessuno comunque prevedeva quanto sarebbe successo: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato», ammise nel 2000 anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, «ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro». E’ un’altra piccola differenza tra allora e oggi: nessuno la prevedeva e però ci fu, oggi di tangentopoli se ne preannuncia una ogni mezz’ora: e non c’è mai.
Tangentopoli era un sistema-Paese in cui il finanziamento illegale della politica, un tempo fisiologico e necessario, era degenerato a Milano come nel resto del Paese. Nella capitale morale ogni appalto doveva sovvenzionare la politica in quote prestabilite (tot alla Dc, tot al Psi, tot al Pci eccetera, secondo il consenso acquisito) e le imprese a loro volta potevano prestabilire i vincitori delle varie gare in barba al libero mercato, formando così un «cartello» che escludeva altra concorrenza e falsava i costi. Maggioranze e opposizioni conducevano un gioco delle parti che dietro le quinte diveniva complicità e spartizione degli affari: a Milano accadeva che per determinati appalti ci fosse un cassiere unico che poi ridistribuiva agli altri partiti. Il sistema era talmente oliato da rendere praticamente impossibile il comprendere chi, tra imprese e partiti, avesse il coltello dalla parte del manico. Gli imprenditori si definirono come ricattati dai politici, i politici come assediati da imprenditori ansiosi di offrire: in concreto «era un sistema», come disse Bettino Craxi, o nondimeno era una «dazione ambientale» come la descrisse Di Pietro: ispirato, in realtà, da un altro magistrato che si chiamava Antonio Lombardi. Era un sistema tuttavia malato di elefantiasi e degenerato negli effetti pratici ed economici. Più costose e durature erano le opere e più grande era la torta da spartire. Il mercato era sfalsato e così pure la selezione delle offerte migliori e più convenienti. Va da sé che affianco al finanziamento della politica «si era diffusa nel Paese», come disse ancora Craxi il 3 luglio 1992, «una vasta rete di corruttele che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica… I casi sono della più vasta natura, spesso confinano con il racket malavitoso e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi».
Oggi è tutto un altro mondo. E’ cambiata la legge sul finanziamento alla politica (ora beccano un sacco di soldi) e i partiti strutturati sono scomparsi. Non c’è più un sacrale primato della politica, non ci sono più i voti di preferenza coi signorotti delle tessere e le loro campagne elettorali spendi & spandi, non ci sono più (quasi) i politici professionisti e i parlamentari con l’orgoglio di esserlo: spesso conta di più il grado parentale, il legame di letto ma soprattutto l’imponibile netto. E’ cambiata l’immunità parlamentare, il sistema elettorale, la spesa pubblica, la pubblica amministrazione, il falso in bilancio che è stato depenalizzato. Una spazientita pretesa popolare di maggior efficienza e celerità, al tempo, da una parte ha favorito il disboscamento di leggi e leggine e regolamenti burocratici (vale per esempio per infrastrutture, grandi opere e protezione civile) ma di converso ha irrobustito i margini di discrezionalità e quindi anche le possibilità corruzione: che non è più «sistemica» ma pare tuttavia pericolosamente fisiologica, nonché – questo sì – in discreto aumento. Le statistiche giudiziarie dell’Istat – molto più serie e affidabili delle cazzate di Trasparency International – evidenziano che i denunciati per corruzione, oggi, sono circa il triplo del periodo immediatamente precedente a Mani pulite. E però la politica resta spesso sullo sfondo: a episodi di clientelismo o piccola corruzione locale – il caso di Milko Pennisi a Milano, tutto sommato, rientra nella categoria – si sono affiancate più che altro grandi corruzioni finanziarie: Parmalat, Cirio, la scalata di Antonveneta, quella di Unipol a Bnl, le maxi speculazioni immobiliari.
Detto in gergo da bar: ai tempi di Mani pulite c’erano dei politici che si finanziavano illegalmente e talvolta erano dei ladri; oggi invece folleggiano non di rado dei personaggi che non si sa bene se siano politici ma che sono sicuramente dei ladri, e spesso di polli. Sparito il finanziamento illegale, sono rimasti loro in una quota proporzionata alla solidarietà ambientale che raccolgono. Inutile credere che in Friuli si corrompa come in Calabria. E non c’è studio, sul tema, che non sottolinei come a essere più diffusa – svaporato il sistema partitico – sia oggi la corruzione della famigerata società civile, coi suoi professionisti, i suoi tecnici e funzionari pubblici, storie di incarichi e appalti e licenze, certo, ma anche di esami comprati, rimborsi gonfiati, sanità saccheggiata, sino alle ricevute non date e non chieste, agli scontrini dimenticati.
Ci si dovrebbe chiedere, del resto, perché Mani pulite a un certo punto ebbe fine. Il problema non fu la serpeggiante impressione che Mani pulite fosse ormai agli sgoccioli, stanca, talvolta astratta, con tutti quei cronisti che ciondolavano per i corridoi facendosi domande sul proprio futuro. Altri colpi di scena non sarebbero mancati, com’è noto. Il problema, come il Pool non comprese per forma mentis, fu che l’inesorabile fine di una stagione non potè non coincidere con quell’indagine sulla Guardia di Finanza.
Quegli imprenditori che cominciarono a confessare d’aver pagato anche i finanzieri, perché chiudessero un occhio, fu l’inizio di una voragine che in potenza non avrebbe mai avuto fine. Un reparto accusò l’altro, un reparto arrestò l’altro. Intere legioni di militari finirono in carcere e alcuni erano collaboratori del Pool, come visto. Anche nel corpo delle Fiamme Gialle malfattori e galantuomini certo non mancavano, ma quell’immagine di finanzieri che iniziavano ad arrestarsi tra di loro divenne la metafora di un Paese che si stava divorando. Onesti e disonesti, concussi e concussori, taglieggiatori e vittime: parole sempre più svuotate di significato, termini utili per delimitare, secondo fazione, le proprie simpatie e i propri interessi.
Nel Paese in cui tutti pagavano tutti si scoprì che, poveretti, gli agenti della Guardia di Finanza incassavano mazzette perché avevano stipendi da fame, e trescavano con l’esercente che, poveretto, senza fatture false avrebbe chiuso bottega, e trescavano col grande stilista che, poveretto, senza fatture false la bottega non l’avrebbe neanche aperta.
Si scoprì che la famosa dazione ambientale, che da lontano e sui giornali pareva solo un’associazione per delinquere, era vicina, vicinissima: dal fiscalista, dal commercialista, dal certificatore di bilanci, dall’impiegato comunale e regionale e statale, dall’avvocato, dal notaio, in negozio, al bar, nelle famiglie, con la domestica, nel 740, nello scontrino che non ti hanno dato, ma che tu non hai preteso.
La cosiddetta inchiesta «Fiamme sporche», nel 1994, contò centinaia e centinaia di indagati ma comincerà a trasfigurare lo spettacolo di Mani pulite agli occhi del suo pubblico, a confondere proscenio e platea, a disamorare progressivamente da un’ubriacatura legalitaria ormai triennale e che dapprima era parsa tuttavia così liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. Ora non più.
Il terzo tempo di Mani pulite nasceva morto. Nel primo, folle oceaniche plaudivano all’arresto dei politici ladri e corrotti, alcuni graziati e altri esiliati. Nel secondo, folle già più sparute plaudivano all’umiliazione degli industriali pure ladri e corrotti, immunizzati talora e suicidati talaltra. E ora il terzo: folle che plaudivano più stancamente e che cominciavano a chiedersi se i soldi, che scarseggiavano, fossero finiti tutti nei conti di Craxi; e finanzieri che arrestavano finanzieri perché si era addirittura scoperto, nel Paese dei 150 mila miliardi non denunciati ogni anno, che la base della corruzione era proprio il nero dell’evasione fiscale. Ed era finita. Perché la sedicente società civile, con le mani ancora doloranti per gli applausi, nel tardo 1994 cominciò anche a chiedersi se per caso quel grezzo dualismo da fase orale – onesti e ladri, vittime e carnefici, magistrati e politici, Eni e Montedison, Cagliari e Bernabè, Craxi e Di Pietro, poi Berlusconi-Di Pietro – non celasse una qualsiasi lotta tra fazioni, tra un potere e un altro potere, tra un magistrato che indagava il ministro dei Lavori Pubblici ma poi, chissà, magari un giorno ne avrebbe preso il posto.
Nell’indagare sulla metà oscura dell’italiano medio, Di Pietro esplorava se stesso: nella patria che aveva il record mondiale delle seconde case, lui, era giunto ad averne cinque; nel regno degli abusi edilizi, diciamo così, aveva avuto i suoi modesti problemi; nel Paese che conservava le annate di «Quattroruote», s’è visto, prendeva la Mercedes per l’amichetto e la Lancia per la moglie; nel Paese dei furbi sarebbe diventato lo scroccone che sappiamo e che riuscirà, quindici anni dopo, nel 2008, a intestarsi l’intero finanziamento pubblico dovuto a un partito politico.
Ma nel 1994 il manipulitista medio, moderato, tutto questo lo percepiva appena. Nella prima estate di quell’anno Antonio Di Pietro era ancora quello che arrestava i corrotti per rendere il mondo migliore. Era il braccio armato di una Procura che operava vigilanze preventive e ammoniva quanti già parlicchiavano di decreti antimanette. Questo da una parte. Dall’altra, appunto, le manette.
Chiederanno molti anni dopo a Francesco Saverio Borrelli:
Quando vi siete resi conto che l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei vostri confronti stava cambiando?
«Direi più o meno in coincidenza con l’indagine sulla Guardia di finanza… finché si trattò di colpire l’alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che cominciavano a stare sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma quando, con l’indagine sulla Guardia di finanza, si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione in Italia non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma che investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso. A quel punto il cittadino medio ebbe la sensazione che questi moralisti della Procura di Milano volessero davvero passare lo straccio bagnato su tutta la facciata del paese, sulla coscienza civile di tutti gli italiani. Parlo del cittadino medio, che vive spesso di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, mancette per poter campare e rimediare all’inefficienza della pubblica amministrazione. A quel punto, ho l’impressione che la gente abbia cominciato a dire: adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, ci avete liberato dalla piovra della vecchia classe politica che ci succhiava il sangue, ma adesso lasciateci campare in pace. Quando abbiamo toccato la Guardia di finanza, a parte le reazioni ovvie del mondo politico, anche una parte di imprenditori si è sentita toccata troppo da vicino da quest’ansia di pulizia che veniva dalla Procura… Ci si stufa delle guerre, figuriamoci di Tangentopoli».
Dirà Piercamillo Davigo:
«Le vicende che mi hanno più impressionato non sono state quelle delle grandi tangenti… Sono le piccole vicende a deprimermi. Mi sono capitati due o tre processi dove centinaia di persone hanno pagato somme di qualche milione per non fare il servizio militare. Parliamo di centinaia di persone, non di qualcuna. Questo vuol dire, in primo luogo, che io pago non solo per non fare il servizio militare, ma anche perché altri lo facciano al mio posto… È la stessa cosa, in grande, del non rispettare la fila. In secondo luogo, manca una percezione della gravità del comportamento tenuto. Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano, perché a diciannove anni non si hanno dei milioni cash nel portafogli. Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti e sulla valutazione che di essi viene data nel complesso della società»
Scriverà proprio Enzo Carra, l’ex portavoce democristiano che Davigo aveva fatto condannare, oggi parlamentsare
«Mani pulite fu in ultima analisi un piccolo squarcio nei nostri vizi pubblici e privati; poteva essere una grande occasione per metterli sotto accusa, questi vizi, insieme ai corrotti e ai corruttori. E’ stata una grande occasione mancata per cambiare le regole e i comportamenti nella nostra società… Con un’eccezionale prova dell’italianissima arte di arrangiarsi il cammino è ripreso come prima, o quasi… Invece di cambiare sistema si è cambiato discorso».
Ecco perché l’ex procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, oggi, lamenta che per una nuova Tangentopoli «manca il consenso popolare». Nostalgia canaglia.
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