Dopo anni di sconfitte dovute a motivi di volta in volta indicati come “eccezionali e imprevisti” – una volta l’extra deficit ereditato, poi l’11 settembre 2001, poi la bolla internet nei paesi Ocse, poi la crisi 2007-2009, e sempre naturalmente il gettito da assicurare in costanza di esercizio rispetto agli impegni europei – personalmente l’ottimismo della volontà mi resta tutto, ma il pessimismo della ragione mi induce a riconoscere che non nutro più alcuna fondata aspettativa che l’attuale centrodestra abbassi significativamente la pressione fiscale. Questo non significa affatto che cambi idea in ordine all’importanza di un energico abbassamento del suo peso, per determinare tre obiettivi: più crescita nel nostro Paese, condizione necessaria anche per colmare almeno in parte i gap storici tra Nord e Sud; rendere meglio sostenibile il bilancio e il debito pubblico, che altrimenti ci obbligherà a maggiori prelievi; nonché per una decente sostenibilità dei conti intergenerazionali, destinati altrimenti entro 10-15 anni a inabissarsi per i pochi attivi sul totale della popolazione anziana. Personalmente non cambio idea non per tigna, ma perché l’evidenza della maggior crescita da minor pressione fiscale, determinatasi in tutti i Paesi di diversi modelli che l’anno praticata nei decenni del pre-crisi, esce a mio modo di vedere ulteriormente confermata e non smentita dal mondo nuovo nel quale la crisi ci ha obbligati a entrare: un mondo in cui i debiti pubblici Ocse tendono a crescere verso il 100% del Pil, su medie “italiane”. Di conseguenza, o si ha la lungimiranza di riforme che rendano minore la pressione avviando il risanamento energico dei deficit, oppure quelle parti del mondo avanzato che già nel pre-crisi sperimentavano una pressione fiscale record entreranno nel permafrost di un’era glaciale, caratterizzata da crescite stentate, conflitti sociali e default pubblici striscianti.
Con tutto il rispetto per chi le elezioni regionali le ha vinte dopo le politiche, e per chi da 16 anni ha la forza personale di continuare e meritare tanti consensi degli italiani, il problema non è Silvio Berlusconi. E’ la teoria sottostante alla necessità di una organica riforma tributaria, a non essere più quella del Libro Bianco 1994 e della legge delega di riforma approvata nel 2001. C’ è un solo maestro di musica nel centrodestra in materia di imposte, e il suo nome non è Silvio. Ha conquistato sul campo il merito di aver evitato all’Italia di finire con CDS sul debito sovrano a 400 e oltre punti come la Grecia. Ha dalla sua la forza della Lega. Sapete benissimo, di chi sto parlando. E io per lui ho da molti anni rispetto e stima, anche se spesso mi fa imbizzarrire quando elogia il posto pubblico o difende nella crisi il ritorno allo Stato. Ciò non mi fa velo, per onestà intellettuale, dal riconoscere che oggi non ci sono più, le premesse condivise alla riforma fiscale che tra il 1994 e il 2001 accomunavano solidamente nel centrodestra italiano quel che dell’esperienza Reagan-Thatcher poteva essere adeguatamente adattato per importarlo in Italia.
Perché quelle premesse ci fossero anche oggi, occorrerebbe l’indicazione preventiva e quantitativa di una consistente soglia di abbassamento del tasso di interposizione pubblico totale – cioè della somma di entrate e spese totali pubbliche – sull’economia italiana, oggi superiore al 100% del Pil. Cioè l’individuazione di due consistenti capitoli di intervento, contestuali alla riforma e necessari a renderla sostenibile, cioè non tale da ingenerare pericolosi deficit nel periodo di transizione.
Il primo capitolo è quello di una consistente riduzione di ciò che attualmente è pubblico di nome perché gestito con dipendenti, retribuzioni e acquisti pubblici, mentre dovrebbe restare pubblico solo di fatto perché invigilato dal pubblico, ma organizzato e gestito da privati, fuori dal perimetro del bilancio dello Stato. Il secondo capitolo è quello di ingentissime dismissioni di patrimonio pubblico, nell’ordine di 300 o 400 miliardi di euro sul totale stimato in circa mille e 800 mila miliardi dell’attivo rispetto al debito pubblico che ormai ha un pari ammontare.
In parole semplici: la riforma dovrebbe assicurare non l’invarianza del gettito attuale, come è strisciante ma implicita premessa dell’attuale impostazione del maestro di musica tributaria del centrodestra, bensì un gettito considerevolmente inferiore stante che la spesa corrente diminuirebbe di 6-7 punti di Pil per spin off da lasciare a privati, e al contempo mentre l’ammontare complessivo del debito pubblico diminuirebbe attraverso dismissioni di un’ordine di grandezza pari a 25 punti di Pil.
Senza tali due premesse, la riforma si riduce a riequilibri tra questa o quella imposta, e tra potere impositivo centrale rispetto a quello delle autonomie. Per carità ottimi propositi, che possono anche essere attuati con innovazioni di cui comunque l’Italia ha gran bisogno, stretta com’è da una troppo elevata progressività nominale sui redditi della persone fisiche in realtà elusa da ciò che l’ordinamento consente a chi ha redditi più elevati, e una regressività intollerabile e iniqua sul reddito delle imprese, dove le poche grandi e le banche pagano tax rate assai inferiori delle imprese piccole che dell’Italia costituiscono l’ossatura.
Ma bisogna che per esempio i cattolici liberali lo sappiano e lo tengano ben presente: una riforma a parità di pressione fiscale che riequilibri tra centro e periferia e tra questa e quell’imposta non avrà certo spazio se non simbolico, per scelte di fondo come quelle a favore della famiglia. Sia che si pensi a un quoziente familiare, sia a deduzioni molto forti per figli e loro formazione, lo spazio per simili interventi si crea solo a pressione fiscale significativamente più bassa. Che serve a far crescere il Paese: ma, sfortunatamente, anche a tagliare radicalmente le unghie ai mediatori protempore della spesa pubblica e cioè agli apparati politici e parapolitici, esattamente ciò che un tempo il centrodestra diceva di voler fare, ma ha rivelato di non aver la tempra di fare, proprio come il centrosinistra.
Rassegnato, dunque? Neanche per idea. Come a sinistra c’è un Grillo che mette in difficoltà coi suoi consensi il Pd, non è affatto detto che un effetto analogo non possa verificarsi anche a destra, se qualcuno che sa di queste cose prende il coraggio a due mani e inizia a battere l’Italia con coraggio. Vedremo.
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