Se si prendono alla lettera le dichiarazioni rilasciatre – in Italia, è sempre un esercizio pericoloso – ieri si è celebrata una svolta. Nella storia pluricentenaria della Fiat in Italia, per la prima volta sono gli industriali stessi a girare pagina. Si afferma infatti una distinzione che, in passato, mai era stata considerata possibile. La Fiat è un conto , la sua profittabilità, la sua storia di grande azienda simbolo della manifattura italiana nel mondo, con i suoi periodi di fulgore al pari di quelli di crisi nera sempre sinora eguiti da un rilancio, fino alla grande sfida americana e mondiale lanciata mesi fa da Sergio Marchionne. La politica nazionale dell’auto è un’altra cosa, e non coincide per forza di cose con la tutela da parte della politica nei confronti della casa torinese, come unico produttore italiano. Ed è di grande importanza, che a fare con chiarezza tale distinzione siano appunto gli industriali per primi, non la politica contro gli industriali.
Infatti ieri è stato il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, a notare saggiamente che la questione del rinnovo o meno anche nel 2010 degli incentivi pubblici al settore automobilistico non deve essere legata in alcun modo alla chiusura di Termini Imerese a fine anno, già comunicata dalla Fiat. E sull’eventuale mancato rinnovo degli incentivi pubblici nel 2010, è stato il capoazienda Fiat Marchionne a dirsi agnostico ieri mattina, intervistato dalla Stampa, e d’accordo con il governo in una nota ancor più significativa, emessa nel tardo pomeriggio quando ormai lo scenario del mancato rinnovo diventava, dopo le parole di Berlusconi, molto probabile da possibile che era. Fossi stato in Luca di Montezemolo, oggi, non avrei certo detto che la Fiat non ha mai avuto auti di Stato, ma questo è un altro paio di maniche, in fondo trascurabile visto che Marchionne pesa molto di più.
Vi sono almeno tre aspetti da sottolineare, in questa che – a prenderla in parole, poi come al solito:vedere per credere – potrebbe rappresentare una vera svolta “storica”. Il primo è quello dei numeri, che aiuta a capire e tuttavia non è quello decisivo. Il secondo è la nuova filosofia Fiat, che con Marchionne si avvia a cambiare sempre più. Il terzo, quello di una vera sfida nazionale che deve accomunare tutti, politica e sindacato in prima fila.
I numeri sono presto fatti. Sul totale dei 300 o 400 milioni che verosimilmente, stando alle indiscrezioni dai tavoli governativi, potrebbero rappresentare in tutto e per tutto la disponibilità del Tesoro per incentivi alla domanda – spostando il più degli incentivi all’offerta, cioè per investimenti tecnologici e in ricerca, nella Tremonti ter – all’auto ne andrebbero non più di 200. Si tratterebbe di una cifra pari a circa un sesto di quanto è stato stanziato per lo stesso fine nel 2009. In altre parole, se si ipotizzasse che anche nel 2010 continuasse a funzionare l’effetto di mera “anticipazione degli acquisiti” che gli incentivi inducono nel mercato, drogandolo più che rappresentare veri acquisiti aggiuntivi come ieri ha ammesso lo stesso Marchionne, si tratterebbe di poco più di 100 mila auto nuove a bassa emissione. Per la quota che nel mercato italiano rappresenta la Fiat rispetto ai produttori esteri, si tratterebbe di 30-35 mila unità di venduto in più in Italia. Per una quantità così trascurabile, rispetto alle prospettive di utile già inglobate negli obiettivi Fiat per il 2010 e nelle stime degli analisti, è un gioco che non vale la candela. Per Torino, è di molto preferibile affermare una volta per tutte che la Fiat non chiede niente alla politica, rispetto al molto che ha già avuto nella storia (gli italiani fanno bene a pensarla così, e sono sicuro che anche Montezemolo lo sa benissimo).
E’ il significato più profondo, in definitiva, della sfida lanciata da Marchionne per proiettare la Fiat con un Chrysler risanata prima ai 4,5 milioni di venduto l’anno, entro un triennio, e poi con politiche aziendali di ulteriore consolidamento verso e oltre la quota dei 6 milioni. Nella sfida, l’italianità di Fiat non sarà più definita da dove essa produrrà più auto, poiché l’obiettivo massimo torinese è di passare dalle 650mila dell’anno scorso a 900mila entro il triennio. L’italianità vivrà nella progettualità e nel design del suo marchio, nelle sue soluzioni motoristiche e di cambio che accomuneranno le piattaforme. Prodotte laddove sarà più conveniente, ma con la “testa” dell’azienda che resterà in Italia.
Quanto a un serio piano nazionale auto distinto dalla difesa con le unghie dei soli cinque stabilimenti Fiat in Italia, sta alla politica e al sindacato ora comprendere che si sono persi troppi decenni, ma che oggi è venuto il momento di uno scatto in avanti. La Gran Bretagna non ha difeso nessuno dei suoi storici marchi nazionali, ma ha attirato grandi gruppi dell’auto di tutto il mondo, e produce oggi cinque volte più di noi. Per far questo, occorre garantire tasse competitive, vincoli amministrativi non soffocanti, e accordi salariali come quelli consentiti dal nuovo modello contrattuale varato un anno fa. Un modello che non introduce solo la contrattazione decentrata del salario, ma anche la facoltà di derogare – per consenso delle parti – dalla parte normativa del contratto nazionale. Io dico che per attirare produttori dal mondo, e accrescere l’indotto italiano dell’auto che ha posizioni di eccellenza mondiale, è il caso di applicarla, quella deroga, in modo da dimostrare che il lavoro si difende meglio nel mercato, che nei singoli stabilimenti storici oggi privi di competitività internazionale. E la politica per parte sua deve pensare ad ammortizzatori sociali nuovi e diversi, dopo aver esteso in deroga per un anno e mezzo quelli esistenti precrisi: serve la tutela ai lavoratori nel mercato del lavoro, non nelle singole aziende obbligandole a stare aperte quando perdono. Altrimenti, più che ammorizzatori sociali sono freni alla ristrutturazione, e l’occupazione che si crede di difendere oggi significa solo meno posti di lavoro per tutti domani.
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