L’amore – in realtà ha perso. Visto da destra, il bicchiere mezzo pieno corrisponde a un Berlusconi vincente, ma quello mezzo vuoto è un Pdl inesistente o peggio ancora complementare a Di Pietro e a Grillo.
Va da sé che in un ottica calcistica non ci sarebbe da discutere: si può vincere vince in vari modi (ai rigori, al novantesimo, per autogol altrui, con un solo bomber, per differenza reti) ma il punto è anche il campionato che si sta giocando, le reali prospettive al di là di un gagliardetto in più. E comunque non si parla di tifosi, ma di cittadini. Il fatto che il Cavaliere sia riuscito a vincere con un colpo di reni e solo perpetuando l’eterno referendum su di sé (intento riuscito parzialmente per via dell’astensione) evidenzia anzitutto che il maggior partito del Paese ne ha avuto terribilmente bisogno. Pur essendo al governo da anni, il Pdl non ha potuto rinunciare a che Berlusconi improvvisasse una manifestazione in extremis, rimediasse parzialmente a danni inenarrabili (le liste irregolari) e si affiancasse a qualche candidato attirando ogni luce su di sé: «Berlusconi vota Polverini», recitavano i manifesti romani. Nessuna novità, tantomeno positiva: anche perché il prezzo pagato all’ennesimo referendum è stata una personalizzazione della campagna elettorale che non solo ha rinfocolato lui per primo, ma ha contribuito sicuramente a distogliere dai famosi temi concreti. Non è vero che Berlusconi si è limitato a rispondere ai colpi altrui: spesso ha rincarato, ha dipinto l’avversario con toni da anni Cinquanta, ha buttato lì anche delle sonore sciocchezze (la battuta sul cancro) ma nel farlo ha risposto più che altro alle procure e alla sinistra dipietresca, visto che il Pd si è sostanzialmente limitato a non esistere come ormai fa da molto tempo. Senza contare che anche gli strali peggiori – legati all’abrogazione dei talk show Rai per tutto il mese – Berlusconi se li è decisamente cercati.
Ora: si dice che tutto ciò gli sia stato necessario per rinsaldare lo zoccolo duro del partito e dunque per ridestare «gli italiani che non seguono la politica». Benissimo, pare che Berlusconi ci sia riuscito: ma allora da chi è composto quel 36 per cento di astenuti che corrisponde al più basso afflusso dal Dopoguerra? Ormai è il primo partito italiano: chi ne fa parte? E’ composto dagli italiani che la politica, viceversa, la seguono o vorrebbero farlo? Da chi, anche a destra, i talk show li avrebbe voluti? O più semplicemente da chi, da ambo le parti, non ne poteva più proprio dell’eterno referendum su Berlusconi? Un referendum di cui sia Berlusconi che i suoi odiatori sembrano ormai essere dipendenti?
Sono quesiti retorici. Gli elettori, per usare un gergo caro al Cavaliere, non sono come i telespettatori, che essenzialmente si contano ma, per meglio indirizzare l’utenza pubblicitaria, si devono anche pesare: gli elettori sono tutti uguali, e il loro voto, diversamente dal potere d’acquisto, vale sempre uno. Ergo, nel centrodestra – anche nel centrodestra – la gara è stata giocoforza al ribasso: Berlusconi è riuscito a far vincere il referendum su di sé, ma il numero di coloro che di questo referendum non ne possono più è cresciuto a destra come a sinistra. Sono rimasti in campo, protagonisti, il furor di popolo di Berlusconi e il furor di popolo di chi lo vorrebbe in galera: ha vinto la maggioranza, ma ha vinto anche quello lo stracitato clima da guerra civile che da quasi vent’anni ci portiamo dietro.
Si dice che la crescita dell’astensione sia fisiologica in tutti i paesi evoluti. Vero anche questo, ma a parte che il salto resta impressionante (quasi 15 punti rispetto alle politiche di due anni fa) allora è pure vero che in quegli stessi paesi l’astensione è spesso divenuta una scelta consapevole, deliberata, non una possibile distrazione di massa influenzabile dal bel tempo o dall’ora legale: ciò che rischia di diventare anche da noi. Un disamore per la politica fondato su un amore per la politica.
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