Il Kosovo porta dei traffici criminali
di Rosaria Talarico
Pec (Kosovo) - Le sentinelle che vigilano su Villaggio Italia non sono armate, sono molto alte e invece della mimetica indossano un manto candido. No, nessuna violazione degli standard Nato. Sono le montagne innevate alle spalle della base Kfor, che ospita i contingenti di Italia (nazione leader), Slovenia, Ungheria, Romania e Turchia. Prima del filo spinato e delle telecamere di sorveglianza, prima dei cartelli che intimano di scaricare le armi per entrare nella base, chi arriva qui non può fare a meno di vedere queste vette imponenti e seminascoste dalla nebbia. Siamo a Belo Polje, vicino alla città di Pec/Peja nel settore ovest del Kosovo. Il doppio nome (in serbo e in albanese) compare in tutti i documenti di Kfor, perché i conflitti interetnici si vincono anche applicando l’equidistanza linguistica. Il Kosovo è uno dei "teatri operativi" in cui è presente l’Italia. Una missione in realtà dimenticata da giornali e opinione pubblica che concentrano la loro attenzione su aree più calde, come l’Afghanistan. Eppure a livello geografico il Kosovo è proprio dietro l’angolo rispetto all’Italia. Appena un’ora di volo da Roma. Tanto serve per arrivare all’aeroporto di Gjacovë/Djakovica, dove all’atterraggio si viene accolti da una scritta tranquillizzante: "Amiko", che però vuol dire semplicemente Aeronautica Militare Italiana in Kosovo. Da qui partono e arrivano i militari italiani, le provviste, i bambini kosovari con gravi malattie curati in Italia.
È da poco passato il secondo anniversario dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo (riconosciuta da una sessantina di Stati e a cui si oppone con forza la Serbia, che ha presentato un ricorso alla Corte dell’Aja). Mentre dieci anni sono trascorsi dall’avvio di Kfor (Kosovo Force), la missione internazionale a guida Nato autorizzata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 1999. Cosa è cambiato nel frattempo? La disoccupazione tocca punte del 70% , c’è molta emigrazione (con le rimesse degli emigrati si sostiene la fragile economia kosovara), i contrasti tra serbi e albanesi sono drasticamente calati, anche grazie a diversi progetti interetnici.
I TRAFFICI ILLEGALI. Resta l’enorme piaga della criminalità e dei traffici illegali. Il Kosovo è da sempre il crocevia di contrabbandieri che fanno passare dalle sue montagne impervie qualsiasi cosa: droga (soprattutto eroina proveniente dall’Afghanistan), armi, sigarette, gasolio e anche esseri umani. Ed è facile riconoscere chi si dedica a queste attività perché di norma guida potenti suv tirati a lucido e Audi superaccessoriate. La splendida valle della Rugova (un canyon solcato dalle acque) arriva fino in Montenegro e a praticare il "trekking" fino a un po’ di tempo fa erano soprattutto i contrabbandieri. Il rischio paventato da più parti è che il Kosovo si trasformi nella Colombia d’Europa, quando già sono stati messi in luce i legami tra la mafia kosovara e la ‘ndrangheta calabrese. Il quadro tratteggiato da una missione di pochi mesi fa dell’Unodoc (l’ufficio dell’Onu che si occupa di droga e criminalità) evidenzia parecchie criticità: dalla legislazione inesistente per contrastare la criminalità alla scarsità di dati ufficiali sul traffico di droga, dalla necessità di supporto tecnico e di personale alle autorità locali al potenziamento dell’intelligence (evitando però abusi e corruzione che sono una costante). Altra anomalia che salta subito all’occhio del visitatore: il Kosovo è ben lungi dall’avere le caratteristiche per entrare in Europa, eppure la moneta corrente è l’euro…
MITROVICA/MITROVICË. È l’area più problematica del Kosovo tanto che le truppe italiane di stanza a Pec sono state in gran parte trasferite qui. Nel Nord del Paese al confine con la Serbia, si trova Mitrovica/Mitrovicë. La città è divisa in due dal ponte sul fiume Ibar (anche se i ponti in teoria dovrebbero unire), con a Sud gli albanesi e a Nord i serbi. Qui non è raro vedere auto che girano senza targa - come confermano i carabinieri di Msu, profondi conoscitori del territorio - per evitare di far capire la provenienza serba o kosovara e non subire atti vandalici.
LE ENCLAVE. Un nugolo festante di bambini tanto sorridenti quanto sporchi è il comitato di accoglienza al campo "7 settembre", un poverissimo villaggio di Rae (la sigla con cui i militari identificano rom, ashkali ed egizi, etnie minoritarie che vivono in condizioni di povertà estrema). Un ossimoro parlare di igiene, con l’occhio che si posa sulle montagne di spazzatura ai lati del viottolo fangoso, la strada principale del villaggio, dove i ragazzini giocano mentre due somari carichi di legna scendono a valle. I bimbi saltellano intorno e non chiedono caramelle, ma fazzoletti per pulirsi i nasini gocciolanti.
VITA DA MILITARE. Da Villaggio Italia si domina tutta la vallata di Dukagjini. Sul piazzale all’ingresso campeggia la scritta "Uniti per la pace", ingentilita da un’aiuola di piantine rinsecchite dal gelo. La neve è ai bordi degli ampi viali, d’inverno arrivare a -20° è la regola e non c’è goretex che tenga. All’interno della base si trova tutto: pizzerie e ristoranti arredati con stili diversi, palestre, sala giochi con i biliardi e gli immancabili biliardini, bar, i px (gli spacci, che vendono ogni genere di mercanzia), finanche l’ufficio postale (l’unica filiale di Poste italiane all’estero). C’è il Nuovo Cinema Paradiso, dove assicurano che non si proiettano film: è solo l’aula briefing, curiosamente chiamata così. I film si guardano al computer nei corimec, i moduli abitativi dove ci si addormenta cullati - si fa per dire - dal ronzio incessante dei generatori elettrici per ricominciare l’indomani con l’inno nazionale durante l’alzabandiera, issata ogni mattina con la pioggia, il sole, la neve o la nebbia. E poi c’è una vera radio. Partita come operazione psicologica per ottenere il favore della popolazione, Radio West è stata la prima radio militare italiana e un grande successo. Immediatamente dopo la guerra ha permesso il ricongiungimento di familiari dispersi e ora trasmette musica italiana (va fortissimo Celentano), serba e albanese. Ci sono poi le dediche di militari e ascoltatori locali. Il dj è il maresciallo Luca Tundo, che ha fatto un corso presso Rtl 102.5 e se la cava alla grande al microfono. Vita comoda o vita dura? Di certo stare qui è una vacanza rispetto all’Afghanistan. Una fonte qualificata che vive in Kosovo riassume così: "Per i soldati di Kfor questo è il paradiso. Prendono un ricco stipendio per non fare la guerra: qui non c’è nessuno che spara e nessuna battaglia. Ogni tanto devono fare la voce grossa per giustificare la loro presenza". Ma sarebbe scorretto ridurre a questo la presenza internazionale in Kosovo. Gli stessi militari sono consapevoli del fatto che più diventano inutili più vuol dire che il Kosovo è in grado di camminare con le sue gambe, senza appoggiarsi alla stampella della Nato o dell’Europa. Ma chi è ritornato in missione qui a dieci anni dalla guerra non può fare a meno di notare i cambiamenti in meglio che proprio gli italiani hanno contribuito a creare costruendo strade e scuole e spendendo milioni di euro in progetti di cooperazione. Con una sensibilità e una passione che tutta la popolazione kosovara riconosce, a qualsiasi livello. Lo sa bene il colonnello Vincenzo Grasso, comandante del Multinational battle group West: "Più che il militare sto facendo il diplomatico. Incontro sindaci, imam, monaci, capi villaggio perché l’attività militare è molto ridotta, si fanno più che altro esercitazioni". La Nato infatti ha deciso che Kfor passerà da 15mila a 10mila unità. Anche il contingente italiano verrà ridotto gradualmente, andranno via 500 dei circa 1400 militari presenti oggi.
I MONASTERI ORTODOSSI. Il Patriarcato di Pec e il monastero di Visoky a Decanj/Decane sono due esempi mirabili di architettura romanica e pittura bizantina. Entrambi dichiarati dall’Unesco “patrimonio dell’Umanità”, da sempre sono protetti dai militari italiani essendo i luoghi-simbolo della spiritualità serba in un'area a maggioranza albanese. Il 25 aprile doveva tenersi la cerimonia di intronizzazione del nuovo patriarca ortodosso. L'evento è stato rimandato all’autunno, ufficialmente per consentire di accogliere al meglio gli ospiti stranieri tra cui, secondo alcune indiscrezioni, il presidente russo Dimitri Medvedev. Le autorità religiose non vedono di buon occhio la riduzione del personale Kfor, preoccupati che la protezione passi alla polizia kosovara (al 90% albanese e in cui non sono pochi gli uomini provenienti dall’Uck, l’ex esercito di liberazione). Da Kfor garantiscono invece gli standard di equità e professionalità raggiunti dalla polizia, che ha saputo conquistare la fiducia di tutti. Di sicuro gli albanesi non possono entrare nei monasteri o assistere ai riti suggestivi a lume di candela, tra l’odore di incenso e i canti polifonici. "Originariamente il nome era Kosovo i Metohija, che vuol dire terra della chiesa. Non so perché questa seconda parte è stata eliminata" si chiede Madame Dobrilla, la battagliera portavoce delle monache del Patriarcato mentre mostra preziose icone e candelabri anneriti dalle fiamme (nel 2004 centinaia di chiese serbe furono distrutte dagli albanesi), recuperati e restituiti al patriarcato dai soldati italiani "gli unici ad aver avuto questa sensibilità".
L’Islam in salsa kosovara non ha nulla dei rigidi precetti di impostazione wahabita. È un Islam un po’ posticcio, come i minareti appiccicati a chiese preesistenti e così trasformate in moschee. Il venerdì, giorno da dedicare al culto, i negozi sono aperti e bere alcol non deve far indispettire poi tanto Allah visto il consumo di rakija, una sorta di grappa balcanica. Gli albanesi non hanno monasteri imponenti come patrimonio storico, ma le poche “kulla” (la tipica abitazione albanese a forma di torre) sono quasi scomparse a causa della guerra e della trascuratezza. Una di queste ospita un cimitero, una sorta di sacrario militare dei guerriglieri dell’Uck e in futuro un museo che ne ricordi le gesta. Proprio di fronte sorge il castello di Ramush Haradinaj, ex primo ministro del Kosovo processato dal tribunale dell'Aja. "Young europeans" recita il claim dello spot commissionato dal governo e costato quasi 6 milioni di euro. Chissà se il nation branding pubblicitario (la costruzione della reputazione di una nazione) funzionerà.
Da il Fatto Quotidiano del 4 aprile
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