lunedì 22 marzo 2010

Piazza Affari e il male oscuro del capitalismo italiano

http://www.repubblica.it/economia/2010/03/22/news/piazza_affari_e_il_male_oscuro_del_capitalismo_italiano-2813877/

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La Borsa italiana oggi è fatta da pochissime grandi imprese. Le 40 del Ftse/Mib rappresentano l'87% della capitalizzazione totale (valore di mercato di tutte le imprese quotate). Dei primi 150 titoli del listino, la metà ha una capitalizzazione inferiore ai 696 milioni. Il numero delle società quotate è limitato, non molto distante da quello di 25 anni fa. L'intero mercato azionario italiano vale, ai prezzi attuali, solo il 30% del Pil 2009. Non è neppure pensabile un confronto con gli Stati Uniti: basti ricordare che negli USA, anche dopo la crisi, il rapporto tra valore della Borsa e Pil è al 103%, e nelle prime 150 società, la metà vale più di 25 miliardi euro. Ma siamo il fanalino di coda anche dell'Europa Continentale: il nostro rapporto borsa/Pil è meno della metà di quello francese (74%), ed è inferiore anche a quello tedesco (40%), anche se in Germania, tradizionalmente le imprese si sono sviluppate al di fuori del mercato azionario; ma dove, tra le prime 150 società, la mediana è grande il triplo della nostra.
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Ma è la composizione settoriale delle maggiori società quotate che ci distacca maggiormente dal resto dell'Eurozona, per non parlare degli Stati Uniti. Da noi, anche dopo la crisi, il 35% dell'indice è costituito da banche e servizi finanziari: quasi il doppio di Francia e Germania. Negli Usa, dove la bulimia del settore finanziario aveva innescato la crisi, banche e finanza pesano oggi la metà che in Italia. Un ridimensionamento drastico quanto salutare.

Il resto di Piazza Affari è fatto di servizi di pubblica utilità ed Eni: insieme alle banche, fanno quasi l'80%. È il retaggio del peso dominante nella nostra economia dello Stato imprenditore. Un peso però ancora presente, dato che il 41% delle aziende nel Ftse/Mib ha un'azionista di riferimento pubblico, Stato o Ente locale (tra le banche ho considerato il solo Monte Paschi). Se a queste aggiungiamo le società interamente cedute dallo Stato ai privati (come Autostrade, Sme, Telecom o le genco dell'Enel), si arriva all'assurdo che il 69% delle nostre grandi aziende quotate è pubblica o nata dalla mano pubblica. Inevitabile in un capitalismo storicamente senza capitali? No. È vero che 20 anni fa, senza mobilità internazionale dei capitali, il risparmio degli italiani doveva necessariamente finanziare il deficit pubblico. E in mancanza di un mercato finanziario, tutto passava per le banche. Ma l'Euro, le liberalizzazioni, lo sviluppo e l'integrazione dei mercati, avrebbero dovuto liberare i nostri capitalisti dallo storico vincolo della carenza di capitali.
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L'ultimo elemento della fotografia che dovrebbe far riflettere è la totale assenza in Italia di grandi imprese nei settori a maggior crescita della produttività: non solo tecnologia, informatica e farmaceutica (39% negli Stati Uniti) ma anche settori tradizionali che incorporano innovazione tecnologica e manageriale come i beni di largo consumo per il tempo libero e la grande distribuzione. In questo, anche il resto dell'Europa non tiene il passo degli Usa, e non sembra capace di sfruttare la crisi per cambiare il modello produttivo. In Italia il gap sembra incolmabile. Ma, purtroppo, il reddito delle generazioni future dipende proprio dalla capacità di spostare le risorse nei settori a maggior crescita della produttività.

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